Morte del paziente per lesione intestinale in corso di by pass gastrico

Quando i familiari della signora Anna hanno deciso di rivolgersi a Iuremed, avevano un solo obiettivo: capire cosa fosse davvero accaduto durante e dopo l’intervento chirurgico che, invece di migliorare la vita della loro cara, l’aveva tragicamente portata alla morte. Avevano bisogno di verità, ma anche di qualcuno che li accompagnasse in un percorso lungo e complesso, fatto di perizie tecniche, valutazioni mediche e responsabilità giuridiche. E quel qualcuno è stato Iuremed.

Per capire appieno la vicenda, è importante fare un passo indietro e comprendere cosa sia un by-pass gastrico, e perché una persona affetta da obesità patologica possa scegliere di sottoporsi a un’operazione così delicata.


Che cos’è un by-pass gastrico?

Il by-pass gastrico è uno degli interventi più noti e praticati nel campo della chirurgia bariatrica, ovvero quella branca della medicina che si occupa del trattamento chirurgico dell’obesità grave. L’obiettivo principale dell’intervento è limitare l’assorbimento del cibo e ridurre la quantità ingerita, favorendo così un’importante perdita di peso.

Nel dettaglio, l’intervento prevede la creazione di una piccola tasca gastrica, separata dal resto dello stomaco, che viene collegata direttamente all’intestino tenue. In questo modo, si salta (da qui il termine “by-pass”) una porzione significativa dello stomaco e dell’intestino, riducendo drasticamente l’assorbimento dei nutrienti e il senso di fame.

L’efficacia del by-pass gastrico nel trattare obesità e patologie associate come diabete, ipertensione e apnee notturne è ben documentata. Tuttavia, si tratta di una procedura complessa, che non è priva di rischi e complicanze.


Le complicanze del by-pass gastrico: quando l’intervento salva la vita, ma può metterla anche in pericolo

Come ogni operazione chirurgica, anche il by-pass gastrico può presentare delle complicanze, alcune delle quali anche gravi. Tra le più comuni si segnalano:

  • Deiscenza delle anastomosi: ovvero la rottura delle suture tra le varie parti dell’intestino o tra stomaco e intestino, con possibile fuoriuscita di contenuti intestinali e infezione.
  • Perforazioni intestinali: lesioni delle pareti intestinali che possono verificarsi durante l’intervento o successivamente.
  • Fistole: comunicazioni anomale tra organi interni che possono derivare da un’infezione o una rottura di una sutura.
  • Peritonite: infiammazione del peritoneo, spesso causata da perdite di contenuto intestinale nella cavità addominale.
  • Sepsi: infezione grave e generalizzata dell’organismo, potenzialmente letale.
  • Complicanze respiratorie: molto frequenti nei pazienti obesi, specie se affetti da sindrome delle apnee notturne (OSAS).

Tutte queste eventualità, se non riconosciute e trattate tempestivamente, possono avere esiti drammatici.


Il calvario della signora Anna: quando le complicanze non vengono gestite come si dovrebbe

È in questo contesto che si colloca la vicenda della signora Anna, affetta da obesità patologica di III grado (BMI 48), con una storia clinica complessa ma ben documentata. Il 20 aprile 2017 viene sottoposta a un intervento di mini by-pass gastrico in laparoscopia presso l’Ospedale di Napoli.

Sin dal primo giorno post-operatorio iniziano i problemi: la paziente manifesta forti dolori addominali, che porteranno alla scoperta di una perforazione intestinale. Da quel momento inizia una vera e propria escalation chirurgica: la signora Comitale viene sottoposta ad altri tre interventi nei giorni successivi per cercare di contenere i danni, tra cui un’ulteriore laparotomia e la conversione dell’intervento in un by-pass secondo Roux-en-Y.

Nonostante tutti gli sforzi, la situazione clinica continua a peggiorare. La paziente sviluppa una sepsi grave, causata da una peritonite e da una fistola enterica persistente, come confermato anche dalla TC effettuata il giorno del decesso. La mattina del 1° maggio 2017, mentre si preparava l’ennesimo tentativo chirurgico per tamponare la situazione, la signora Anna subisce un arresto cardiocircolatorio da cui non si riprenderà più.


Il lavoro di Iuremed e il riconoscimento del Tribunale

Grazie all’intervento di Iuremed, i familiari della paziente sono riusciti a ricostruire tutta la vicenda con precisione e rigore scientifico. È stata presentata una richiesta di risarcimento fondata su una dettagliata documentazione medica e legale, supportata anche dalla relazione tecnica di parte.

Fondamentale è stata la Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) disposta dal Tribunale, che ha confermato quanto sostenuto dagli eredi: il decesso della signora Anna era causalmente collegato all’errato approccio chirurgico iniziale, e aggravato da una gestione post-operatoria non conforme alle buone pratiche cliniche. I consulenti del giudice hanno parlato apertamente di una condotta imperita e imprudente da parte dei sanitari, sottolineando come le complicanze emerse – pur essendo note e possibili – non siano state gestite in modo adeguato.

All’esito della CTU, il Tribunale di Napoli ha emesso una sentenza che ha dato ragione agli eredi, riconoscendo un risarcimento complessivo di circa 800.000,00 € per la morte ingiustamente subita della loro congiunta.

Un nuovo standard per la valutazione medico-legale del danno alla persona


La recente pubblicazione delle Buone Pratiche Cliniche di Valutazione Medico Legale delle Menomazioni alla Integrità Psicofisica comprese tra 10 e 100 punti di Invalidità Permanente segna un passo fondamentale per il sistema giuridico-sanitario italiano. Promosso dalla Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SIMLA), questo documento si propone di colmare un vuoto normativo importante: l’assenza di un riferimento ufficiale per la valutazione delle cosiddette menomazioni “macropermanenti”.

Il criterio percentuale per esprimere il danno biologico – cioè il pregiudizio permanente all’integrità psicofisica – è ampiamente riconosciuto dalla legislazione italiana, ma fino a oggi mancava uno strumento ufficiale e aggiornato per valutare in modo standardizzato le invalidità gravi, comprese tra 10 e 100 punti. L’iniziativa di SIMLA rappresenta quindi un tentativo ambizioso di fornire una guida metodologicamente solida e scientificamente fondata, che unisca trasparenza, terzietà e rigore clinico.

Il cuore del documento: principi e statement

Il documento si apre con una serie di statement che stabiliscono i principi generali della valutazione medico-legale. Fra i più significativi spiccano:

  • L’importanza di considerare i riflessi dinamico-relazionali del danno, sia comuni che soggettivi.
  • La raccomandazione di esprimere le menomazioni sempre in termini percentuali, per garantire riproducibilità e trasparenza.
  • L’applicazione del principio di analogia per menomazioni non previste specificamente nelle tabelle.
  • La necessità di una valutazione globale in caso di lesioni multiple o preesistenze.
  • L’attribuzione esclusiva al medico legale della valutazione del danno psichico.

Questi statement fanno da fondamento alla successiva sezione applicativa e tabellare.

Le tabelle: un sistema articolato per distretti e funzioni

La sezione più corposa del documento è rappresentata dalle tabelle valutative, che suddividono le menomazioni secondo i principali distretti anatomo-funzionali: sistema nervoso centrale e periferico, funzioni sensoriali, motorie, respiratorie, cardiovascolari, digerenti, urinarie, sessuali, endocrino-metaboliche ed estetiche.

Ogni voce è associata a un valore fisso o a un intervallo percentuale che riflette la gravità della menomazione. Per esempio, la paraplegia senza controllo del tronco ha un valore del 85%, mentre una monoplegia dell’arto inferiore può variare tra 45% e 55% in base alla protesizzabilità e alla funzionalità residua.

Una sezione particolarmente rilevante è quella dedicata alle menomazioni visive e uditive, nelle quali la valutazione si basa su criteri oggettivi (acuità visiva residua, campo visivo, audiogramma) e su formule precise. Viene anche trattata la valutazione dei danni estetici, considerando l’impatto psicologico e sociale, con una classificazione che va dal pregiudizio moderato fino alla deformazione gravissima.

L’attenzione alle preesistenze e alla personalizzazione

Uno degli aspetti più innovativi del documento è l’approccio alla valutazione delle menomazioni in soggetti con condizioni preesistenti. In questi casi, il danno viene modulato in base allo “stato anteriore” del soggetto, cioè alla sua condizione psicofisica prima dell’evento lesivo. Questo consente una valutazione più equa, soprattutto per soggetti anziani o fragili, per i quali viene riconosciuta la maggiore vulnerabilità e le minori capacità di recupero.

Particolare importanza è data anche alla “valutazione sartoriale” del danno, soprattutto nei casi in cui l’interazione tra menomazione e preesistenze produce un pregiudizio maggiore rispetto a quanto indicato dalle tabelle.

Una guida operativa per il presente (e il futuro)

Il documento è pensato non solo per i medici legali, ma anche per avvocati, magistrati, compagnie assicurative e operatori del settore sanitario. È uno strumento di lavoro che unisce rigore scientifico, chiarezza espositiva e applicabilità pratica. L’obiettivo è garantire uniformità e coerenza nelle valutazioni, tutelando al meglio i diritti dei cittadini danneggiati.

Con questo nuovo standard, la medicina legale italiana si dota finalmente di un riferimento aggiornato, moderno e scientificamente fondato per la valutazione del danno biologico permanente di entità medio-grave. Una conquista importante per un settore delicato, dove la precisione e l’equità non sono solo auspicabili, ma essenziali.

Il testo integrale delle linee guida può essere scaricato dalla Biblioteca di Iuremed Academy sezione Tabelle


Il calcolo del danno differenziale e la detrazione dell’invalidità naturale sopravvenuta: analisi della Ordinanza Cass. 4680/2025

Introduzione La recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 4680/2025 ha affrontato una questione di rilievo in materia di responsabilità medica e quantificazione del danno biologico. In particolare, la ordinanza ha chiarito come, nel calcolo del danno differenziale, sia necessario sottrarre dal valore complessivo attuale del danno, la percentuale di invalidità riconducibile a una condizione patologica naturale, anche se questa si sia manifestata in epoca successiva all’errore medico contestato.

Il principio della sottrazione dell’invalidità naturale La Corte di Cassazione ha ribadito che il danno risarcibile deve essere determinato in base al criterio della causalità giuridica, ai sensi dell’art. 1223 c.c., e che nella liquidazione del danno differenziale occorre tenere conto della situazione patologica del danneggiato che si sarebbe comunque verificata in assenza dell’errore medico.

Contrariamente all’uso frequente del termine “preesistenza” per indicare una menomazione da sottrarre nel calcolo differenziale, la Corte ha precisato che l’invalidità da considerare non deve necessariamente essere antecedente all’evento medico dannoso. Ciò che rileva è la sua inevitabilità e autonomia rispetto all’errore del sanitario, indipendentemente dalla data di manifestazione.

Il caso concreto La vicenda giudiziaria oggetto della ordinanza riguardava una paziente che aveva subito un intervento laser errato all’occhio destro, con una conseguente riduzione del visus da 10/10 a 5/10. Successivamente, una patologia progressiva ha ulteriormente compromesso la vista dell’occhio sinistro, riducendola fino a 1/20, aggravando anche il visus dell’occhio destro fino a 1/10.

La Corte d’Appello aveva riconosciuto una invalidità complessiva del 42%, concludendo che il danno imputabile esclusivamente all’errore medico fosse pari al 21%. In base a tale criterio, la liquidazione del danno è stata effettuata sottraendo il valore economico del danno che sarebbe comunque derivato dalla patologia naturale.

Le censure delle parti e la decisione della Corte di Cassazione La parte danneggiata ha contestato tale metodo di calcolo sostenendo che la menomazione all’occhio sinistro si fosse manifestata solo due anni dopo l’errore medico e non fosse quindi una condizione “preesistente”. Secondo la ricorrente, il danno avrebbe dovuto essere calcolato integralmente al 42%, senza detrazioni per una condizione patologica successiva.

La difesa dell’azienda sanitaria, invece, ha sostenuto che la quota di danno riconducibile alla patologia naturale avrebbe dovuto essere ancora maggiore e che il danno da errore medico andava ridotto all’8%.

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello, ribadendo che il danno risarcibile va calcolato sottraendo il valore economico dell’invalidità naturale indipendentemente dalla data della sua insorgenza. Il criterio da applicare non è quello della preesistenza temporale, ma della differenza tra la situazione attuale e quella che si sarebbe comunque verificata in assenza dell’errore medico.

Implicazioni pratiche e considerazioni conclusive La ordinanza n. 4680/2025 si inserisce in un filone giurisprudenziale volto a precisare la corretta applicazione del danno differenziale. Il criterio dettato dalla Corte implica che il risarcimento deve riguardare solo le conseguenze dell’errore medico e non quelle derivanti da patologie autonome e inevitabili, anche se emerse dopo l’evento dannoso.

In definitiva, la Cassazione conferma che il danno differenziale deve essere calcolato con un criterio prognostico, stimando la condizione del paziente in assenza di errore medico, anche quando il peggioramento sia dipeso da una patologia naturale manifestatasi successivamente.

La sentenza integrale può essere scaricata dalla cartella CONCAUSA NATURALE della BIBLIOTECA Biblioteca – Iuremed Academy

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Un avventato intervento chirurgico per instabilità lombare

La decisione del paziente di rivolgersi ai professionisti di Iuremed trae origine da un’esperienza sanitaria complessa e dolorosa, culminata in conseguenze che avrebbero potuto essere evitate con un’adeguata gestione clinica. La vicenda in esame riguarda il signor Mario, un paziente che, affetto da una patologia degenerativa della colonna vertebrale, si è sottoposto a diversi interventi chirurgici presso una struttura sanitaria, riportando gravi danni fisici e psicologici.

La patologia e i rischi del trattamento

Il signor Mario soffriva di una condizione degenerativa del rachide lombare, caratterizzata da lombalgia cronica e sintomi radicolari agli arti inferiori. Tale patologia, legata all’invecchiamento delle articolazioni e dei dischi intervertebrali, presentava aspetti tipici come la formazione di osteofiti e l’irrigidimento delle vertebre.

Nonostante il dolore e le difficoltà motorie, la gestione del caso ha mostrato evidenti carenze. Gli interventi chirurgici cui il paziente è stato sottoposto, tra cui una stabilizzazione vertebrale asimmetrica, non solo non hanno risolto i sintomi, ma hanno comportato ulteriori complicazioni, tra cui una frattura da stress della vertebra L3 e un coinvolgimento del nervo crurale. Tali eventi hanno determinato un peggioramento dell’autonomia motoria e un’intensificazione della sintomatologia dolorosa.

Uno degli aspetti critici emersi è la mancata esecuzione di adeguate indagini preoperatorie, come la risonanza magnetica e le radiografie dinamiche. Questi esami avrebbero potuto confermare o escludere la diagnosi di “instabilità lombare”, riportata in cartella clinica, che invece non trovava riscontro negli esami effettuati.

Le posizioni delle due parti

Le posizioni emerse durante il procedimento legale erano chiaramente contrapposte. Da un lato, il signor Mario sosteneva che la struttura sanitaria avesse agito in modo negligente, effettuando interventi chirurgici senza una diagnosi precisa e omettendo esami diagnostici fondamentali. Questo approccio, secondo il paziente, aveva aggravato la sua condizione, costringendolo a sottoporsi a ulteriori interventi con esiti insoddisfacenti.

Dall’altro lato, la struttura sanitaria difendeva la correttezza del proprio operato, affermando che gli interventi fossero stati eseguiti secondo le buone pratiche cliniche. La difesa sosteneva inoltre che i danni lamentati dal paziente fossero imputabili a fattori personali, come la gravità della patologia degenerativa e le comorbilità preesistenti.

Le condotte colpose ravvisate dai CTU

Dall’analisi tecnica effettuata dai consulenti tecnici d’ufficio (CTU), sono emerse diverse condotte colpose da parte del personale sanitario della struttura convenuta. Tra queste, spiccano:

  1. Errata diagnosi preoperatoria: La diagnosi di “instabilità lombare” si è rivelata non corretta, poiché non supportata dai dati radiologici, che evidenziavano invece una colonna vertebrale stabilizzata da ponti osteofitosici.
  2. Inadeguata pianificazione chirurgica: Gli interventi sono stati effettuati senza un’adeguata valutazione delle necessità del paziente e senza un approccio bilaterale completo per la decompressione e la stabilizzazione.
  3. Mancata esecuzione di tecniche idonee: Gli interventi sono stati eseguiti in modo parziale e asimmetrico, causando ulteriori danni strutturali e funzionali.

Il danno accertato

Le conseguenze per il signor Mario sono state significative. È stato accertato un danno biologico permanente pari al 18%, comprendente la necessità di una stabilizzazione più estesa (L2-L5) rispetto a quella originariamente indicata (L3-L5), oltre alla frattura da stress della vertebra L3 con conseguente compromissione del nervo crurale. Dal punto di vista temporaneo, il paziente ha riportato un’inabilità totale per 10 giorni, seguita da ulteriori periodi di invalidità parziale, per un totale di 130 giorni.

Conclusioni

Questo caso evidenzia l’importanza di un approccio medico multidisciplinare e accurato, nonché il ruolo cruciale di professionisti come quelli di Iuremed, specializzati nell’assistenza a pazienti vittime di malasanità. La loro competenza consente di fare luce su condotte cliniche inappropriate, supportando i pazienti nella ricerca di giustizia e di risarcimento per i danni subiti. Il caso del signor Mario rappresenta un monito sulla necessità di migliorare la qualità delle cure mediche, riducendo al minimo gli errori e garantendo un approccio realmente centrato sul paziente.

Cassazione n. 1443/2025 del 21/1/2025: Il Principio del Dissenso Presunto del Paziente e l’Onere della Prova in Caso di Trattamenti Medici Oltre il Consenso

Introduzione
La Corte di Cassazione, con la Ordinanza n. 1443 del 21 gennaio 2025, ha affrontato un tema cruciale nel diritto sanitario italiano: la tutela del diritto del paziente all’autodeterminazione e la ripartizione dell’onere della prova in caso di trattamenti medici eseguiti oltre i limiti del consenso informato. Questo caso rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione del rapporto medico-paziente, riaffermando il ruolo centrale del consenso informato e il principio del “dissenso presunto” in assenza di urgenza.

La vicenda giudiziaria
La questione è nata dal caso di una paziente che si era sottoposta a un intervento chirurgico programmato per la rimozione di plastica gastrica antireflusso e un’anastomosi gastro-digiunale. Tuttavia, senza che fosse stata informata o avesse prestato il suo consenso, i medici eseguirono un intervento ben più invasivo, consistente nella resezione subtotale dello stomaco e nella rimozione della cistifellea. Quest’ultima procedura non solo non era stata autorizzata, ma nemmeno era giustificata da una situazione di emergenza medica.

La paziente, insoddisfatta dell’esito dell’intervento – che non aveva migliorato le sue condizioni e aveva addirittura richiesto un successivo intervento demolitivo – aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno biologico, morale e da lesione del diritto all’autodeterminazione. Tuttavia, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato la sua domanda, ritenendo che non fosse stato dimostrato che, se adeguatamente informata, la paziente avrebbe rifiutato il trattamento.

La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ribaltato questa impostazione, sottolineando come, in situazioni in cui un paziente sia stato sottoposto, senza adeguata informazione, a un intervento diverso e più invasivo rispetto a quello programmato, l’onere della prova si sposti dalla parte debole del rapporto – il paziente – alla struttura sanitaria.

Secondo la Corte, infatti, il paziente non è gravato dall’onere di dimostrare che avrebbe rifiutato l’intervento più invasivo se correttamente informato. Piuttosto, è la struttura sanitaria che deve dimostrare che, in caso di corretta informazione, il paziente avrebbe dato il proprio consenso. Tale principio, noto come dissenso presunto, opera in tutti i casi in cui il trattamento medico si pone al di fuori dei limiti del consenso fornito, salvo situazioni di urgenza.

La Corte ha così affermato un’importante massima di diritto:

“In caso di violazione del dovere di autodeterminazione del paziente, opera il principio del dissenso presunto in relazione a tutto ciò che si pone al di là e al di fuori dei trattamenti medico-chirurgici autorizzati, a meno che il diverso e più invasivo intervento non sia giustificato da una situazione di urgenza.”

Ripartizione degli oneri probatori
Questo principio ha un’importante conseguenza in termini di ripartizione degli oneri probatori. La Corte ha precisato che, di fronte alla contestazione della paziente circa l’eccesso rispetto al consenso prestato, spetta alla struttura sanitaria dimostrare:

  1. Che il paziente avrebbe comunque acconsentito al trattamento più invasivo; oppure
  2. Che l’intervento era giustificato da un’urgenza medica.

In mancanza di tale prova, il trattamento eseguito senza consenso costituisce una violazione del diritto all’autodeterminazione, con conseguente diritto del paziente al risarcimento del danno.

Implicazioni pratiche
La Ordinanza n. 1443/2025 rappresenta un monito importante per le strutture sanitarie e i professionisti del settore medico. Da un lato, richiama l’obbligo di rispettare rigorosamente i limiti del consenso informato; dall’altro, chiarisce che ogni intervento che ecceda tali limiti espone la struttura sanitaria al rischio di responsabilità, salvo che possa dimostrare la sussistenza di condizioni eccezionali (come l’urgenza).

Per i pazienti, questa decisione rafforza il diritto all’autodeterminazione, evidenziando che ogni trattamento medico deve essere fondato su un consenso informato e consapevole. In assenza di ciò, il sistema giuridico offre strumenti per tutelare i diritti violati.

Risarcimento da ingiusto TSO e il danno subito da chi non ha nulla – Cassazione 33290 del 19/12/2024

Introduzione al caso concreto

La vicenda sottoposta alla Corte di Cassazione ha origine dalla richiesta di risarcimento danni non patrimoniali avanzata dalla sig.ra Ga.Pa. a seguito della sua illegittima sottoposizione a un trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Il TSO, disposto per un periodo di nove giorni, è stato successivamente annullato per carenza di adeguata motivazione nell’ordinanza sindacale che ne costituiva il presupposto. La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda risarcitoria della ricorrente per mancanza di prova del danno conseguenza, con argomentazioni che escludevano l’esistenza di un pregiudizio rilevante anche alla luce della condizione psicologica pregressa della stessa.

L’ordinanza della Cassazione si concentra su diversi punti cruciali relativi alla nozione di danno non patrimoniale e al suo accertamento, ribadendo principi di tutela costituzionale e convenzionale dei diritti fondamentali.

Analisi del passaggio chiave

Uno dei passaggi più significativi dell’ordinanza riguarda la rilevanza del danno non patrimoniale anche nei confronti di soggetti psicologicamente fragili e socialmente vulnerabili. La Corte ha sottolineato che:

“I comportamenti illeciti possono rilevare sotto il profilo del danno conseguenza come danno non patrimoniale, nelle sue componenti della sofferenza pura e del danno dinamico relazionale, anche nei confronti di una persona psicologicamente fragile e che non goda di elevata considerazione sociale, perché ogni persona ha diritto a non essere coinvolta illegittimamente in episodi che mettano (ancor più) a repentaglio il suo equilibrio e la sua reputazione pubblica.”

Danno non patrimoniale e fragilità psicologica

La Corte ha ribadito che il danno non patrimoniale comprende diverse componenti, tra cui:

  1. Sofferenza pura: Si riferisce al dolore interiore, alla sofferenza psicologica e alla percezione di lesione della dignità individuale.
  2. Danno dinamico-relazionale: Coinvolge il pregiudizio alla vita di relazione e alla possibilità di interazione sociale.

La peculiarità di questo caso è l’accento posto sul diritto di ogni persona, indipendentemente dalla propria condizione di fragilità o marginalità sociale, a essere protetta contro comportamenti illeciti che possano ulteriormente compromettere il suo equilibrio psicofisico e la sua reputazione.

Riflessioni critiche

La motivazione della Cassazione segna un passo rilevante nella giurisprudenza in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, evidenziando:

  • Universalità della tutela: Ogni individuo, a prescindere dalle sue condizioni di fragilità, gode di eguale diritto alla tutela contro le lesioni dei diritti fondamentali. Negare il risarcimento basandosi sulla pregressa condizione di vulnerabilità equivarrebbe a perpetuare una discriminazione inaccettabile.
  • Principio di integrità personale: La libertà personale e la dignità sono diritti inviolabili sanciti dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, nonché dall’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). L’illegittima privazione della libertà costituisce, di per sé, un’offesa alla dignità umana, suscettibile di risarcimento.

Conseguenze applicative

La decisione della Cassazione solleva implicazioni rilevanti per l’accertamento del danno non patrimoniale:

  1. Onere della prova: La prova del danno conseguenza non può essere esclusa a priori in presenza di condizioni di fragilità del soggetto. Al contrario, richiede un accertamento più approfondito, anche tramite consulenza tecnica d’ufficio.
  2. Valutazione del danno in presenza di fragilità: La condizione psicologica e sociale pregressa non può costituire un ostacolo al riconoscimento del danno. Al contrario, deve essere considerata per valutare la gravità delle conseguenze subite.

Conclusioni

L’ordinanza n. 33290/2024 rappresenta un richiamo fondamentale alla necessità di assicurare una protezione effettiva ai diritti fondamentali di tutti gli individui, anche (e soprattutto) di quelli psicologicamente fragili o socialmente emarginati. L’affermazione della Cassazione che “ogni persona ha diritto a non essere coinvolta illegittimamente in episodi che mettano (ancor più) a repentaglio il suo equilibrio e la sua reputazione pubblica” evidenzia un approccio inclusivo e rispettoso della dignità umana, che dovrebbe ispirare sia le future decisioni giurisprudenziali che le politiche normative.

In definitiva, il caso analizzato conferma l’importanza di una lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, per garantire un’effettiva tutela dei diritti inviolabili della persona.

Errato intervento alla colonna vertebrale per ernia e spondilolistesi L5-S1

Franco, un uomo di cinquant’anni, aveva riposto le sue speranze di guarigione in un intervento chirurgico di discectomia per risolvere un persistente dolore lombare, dovuto a un’ernia discale. Tuttavia, ciò che avrebbe dovuto essere una soluzione si trasformò in un incubo. Dopo mesi di sofferenze fisiche, aggravate da frustrazione e incertezze, Franco decise di rivolgersi a Iuremed, un team di esperti specializzati in casi di malasanità, per far luce sugli errori che avevano compromesso la sua salute.

La discectomia: un intervento delicato

La patologia di base del paziente era una ernia discale lombare associata a spondilolistesi L5-S1, una condizione che comporta lo scivolamento anomalo di una vertebra sull’altra, causando instabilità vertebrale e compressione delle strutture nervose. Questa situazione determinava una sintomatologia caratterizzata da persistente dolore lombare (lombalgia), limitazione funzionale e sofferenza radicolare. La diagnosi iniziale giustificava l’indicazione per un intervento chirurgico di stabilizzazione e discectomia per alleviare la compressione nervosa e migliorare la stabilità vertebrale.

La discectomia è un intervento chirurgico utilizzato per rimuovere una porzione o l’intero disco intervertebrale danneggiato, al fine di alleviare la compressione sui nervi spinali. Si tratta di una procedura complessa che richiede precisione estrema e un’attenta valutazione preoperatoria per garantire il successo. Un errore in qualsiasi fase del processo, dalla diagnosi iniziale alla gestione post-operatoria, può comportare conseguenze disastrose, come accadde nel caso di Franco.

Gli errori e le responsabilità mediche


Nel caso di Franco, il Tribunale diede incarico a dei Consulenti Tecnici d’Ufficio (CTU) di esaminare i dettagli del suo percorso clinico. Il rapporto finale evidenziò una serie di errori da cui derivavano precise responsabilità in capo ai medici coinvolti..

Secondo i Consulenti Tecnici d’Ufficio, nel trattamento medico-chirurgico del paziente emersero diverse condotte colpose. Durante il primo intervento chirurgico, sebbene il consenso informato firmato dal paziente prevedesse il posizionamento di una “Cage” intersomatica e la discectomia, la procedura eseguita si limitò al posizionamento di viti peduncolari e barre metalliche, senza eseguire quanto promesso. Questo determinò un’artrodesi instabile, causando una ripresa della sintomatologia lombalgica e, successivamente, la rottura delle viti sacrali.

Anche il secondo intervento, pur essendo indicato a causa della disfunzione del sistema di artrodesi, fu eseguito in modo non corretto. Non vennero infatti eseguite la discectomia e la cruentazione delle superfici articolari necessarie per garantire una maggiore stabilità dell’artrodesi, compromettendo così l’efficacia del trattamento e causando la mobilizzazione della “Cage”.

Il terzo intervento, eseguito per sostituire la “Cage”, non risolse i problemi a causa di una preparazione incompleta dello spazio intersomatico, che portò a un nuovo affossamento della “Cage” stessa. Tali errori resero necessario un quarto intervento chirurgico presso un altro centro, dove finalmente venne correttamente eseguita la discectomia, accompagnata dalla cruentazione delle superfici articolari e dal posizionamento di nuove “Cage”. Questo intervento stabilizzò l’artrodesi e attenuò la sintomatologia del paziente, anche se i danni funzionali non risultarono completamente risolti.

I CTU evidenziarono che tali condotte colpose causarono un prolungamento dello stato di malattia, una persistente instabilità vertebrale, sofferenza radicolare e mielica, e una maggiore morbilità legata alle ripetute incisioni e manipolazioni chirurgiche.

Le conclusioni
Il rapporto dei CTU sottolineò come questi errori sarebbero stati evitati se i medici avessero seguito gli standard di diligenza richiesti. La documentazione medica analizzata rivelò una catena di responsabilità che portò a conseguenze dirette e gravi sulla salute di Franco. Grazie al supporto di Iuremed, il paziente ottenne un quadro chiaro delle sue possibilità legali, avviando un procedimento per il riconoscimento delle responsabilità e il risarcimento dei danni subiti.

La Disciplina del Risarcimento del Danno Patrimoniale in Caso di Premorienza Causata da Errore Medico – Corte di cassazione Civile, Sez. III, 09/12/2024, n. 31684

La recente ordinanza della Corte di cassazione Civile, Sez. III, n. 31684 del 9/12/2024, offre uno spunto importante per riflettere sui criteri di quantificazione del danno patrimoniale in caso di premorienza causata da errore medico. Il tema si sviluppa attorno alle distinzioni tra danno emergente e lucro cessante, nonché sulla rilevanza del concetto di “rischio latente” per la liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale.

La giurisprudenza distingue il danno emergente dal lucro cessante come componenti fondamentali del danno patrimoniale. Il primo riguarda le spese sostenute dal danneggiato, ad esempio per cure mediche o adattamenti dell’ambiente domestico. Il secondo si riferisce invece alla perdita di redditi futuri o di opportunità economiche, derivante dall’illecito subito.

Nel caso analizzato, il danno emergente comprendeva i costi affrontati per l’assistenza sanitaria e le necessità di cura della vittima, mentre il lucro cessante era legato alla perdita della capacità lavorativa e ai mancati redditi futuri che il danneggiato avrebbe potuto percepire se non fosse intervenuto l’illecito. La Corte, esaminando queste due componenti, ha sottolineato la necessità di una valutazione rigorosa e personalizzata.

Il concetto di rischio latente e la sua applicazione limitata al danno non patrimoniale

Uno dei passaggi più significativi dell’ordinanza è la chiara distinzione tra l’applicabilità del concetto di rischio latente al danno non patrimoniale e la sua esclusione per il danno patrimoniale. La Corte afferma:

“Il rischio latente — rappresentato dalla potenziale progressione offensiva insita nella lesione permanente — è un criterio utilizzabile per valutare il danno non patrimoniale, in quanto incide sulla qualità della vita e sulle sofferenze morali della vittima. Tuttavia, tale concetto non è applicabile per la determinazione del danno patrimoniale, che richiede parametri oggettivi e specifici legati alla perdita economica concreta.”

Questo passaggio esclude ogni automatismo che porti a un incremento del risarcimento patrimoniale basato su fattori di incertezza, ribadendo che il risarcimento deve essere ancorato a elementi prevedibili e verificabili, come la durata media della vita e il reddito medio nazionale.

Così motiva la Corte:

“Pertanto, sotto il profilo del rispetto del principio di integralità del risarcimento (art. 1223 c.c.), la circostanza che l’invalidità permanente sia cagionata dall’illecito e che questo abbia negativamente inciso sulla stessa aspettativa di vita in concreto della persona danneggiata, comporta che i danni-conseguenza da essa derivanti, quello biologico e quello patrimoniale da mancata remunerazione dell’attività lavorativa, in quanto entrambi proiettantisi nel futuro, debbano trovare criteri sostanzialmente omogenei di liquidazione.

In tal senso, come si è visto, nella liquidazione del danno biologico la valorizzazione del dato della minore speranza di vita si lega al correttivo della inclusione del “rischio latente” nella costruzione del barème, ma là dove ciò non accada la liquidazione stessa deve effettuarsi tenendo conto del parametro della durata media nazionale della vita.

Nella liquidazione del danno patrimoniale futuro da mancata remunerazione dell’attività lavorativa il correttivo anzidetto non è, logicamente, utilizzabile, non essendovi un barème medico-legale che misuri la perdita della capacità produttiva di reddito lavorativo, e, pertanto, residua e trova applicazione il criterio della durata media nazionale della vita”.

L’irrilevanza della premorienza nel risarcimento del lucro cessante

Nel caso in esame, la premorienza era stata determinata dall’illecito, ma la Corte ha escluso che ciò potesse ridurre il risarcimento, seguendo il principio di integralità. Essa ha chiarito:

“L’aspettativa concreta di vita del danneggiato non può giustificare una riduzione del risarcimento patrimoniale, poiché il parametro deve essere quello della durata media della vita, al fine di evitare che il responsabile tragga vantaggio dalla condizione che egli stesso ha determinato.”

Questa affermazione conferma che, anche in presenza di una speranza di vita ridotta, il calcolo deve essere effettuato tenendo conto delle opportunità economiche che il danneggiato avrebbe avuto se avesse vissuto una vita media, garantendo così una piena compensazione.

“Non è pertinente con le argomentazioni che precedono il rilievo dell’Azienda ULSS per cui, in tal modo, si verrebbe ad “attribuire al risarcimento una funzione punitiva” e non già riparatoria e ciò sarebbe stato evidenziato da questa stessa Corte “in materia di (non risarcibilità del) danno tanatologico” anche con la più recente Cass. n. 28989/2019.

Si è, infatti, già messo in risalto come nelle ipotesi in esame operi, in funzione riparatoria e non già punitiva, il principio di integralità del risarcimento e il precedente giurisprudenziale richiamato dall’Azienda ULSS non smentisce affatto tale approdo, avendo deciso sul ben diverso caso del “danno, iure haereditario, per la perdita, da parte della de cuius, del bene della vita in sé considerato, ossia di un danno in sé diverso, tanto dal danno alla salute, quanto dal c.d. danno biologico terminale e dal c.d. danno morale terminale” (pp. 14/15 della citata Cass. n. 28989/2019).

Va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: il danno patrimoniale futuro da mancato guadagno per la perdita totale della capacità di lavoro in conseguenza dell’illecito va liquidato facendo riferimento al parametro dell’aspettativa di vita media del soggetto danneggiato e non alla sua minore aspettativa di vita in concreto accertata”.

La rilevanza della premorienza nel risarcimento del danno emergente

Nel caso del danno emergente, come nel caso in esame relativo alle spese mediche e di assistenza, l’esborso è correlato al periodo di vita residua della vittima. Tale danno è intrinsecamente legato alla permanenza in vita del danneggiato: la morte pone naturalmente fine alla necessità di tali spese, escludendo ogni ulteriore pregiudizio patrimoniale.

“È, infatti, corretta la decisione della Corte territoriale di liquidare, in favore di Ca.Ga., il danno futuro per le spese mediche e di assistenza tenuto conto dell’aspettativa di vita residua di anni 20 e non della “vita media di un soggetto di sesso femminile (82 anni)”.

Trova, infatti, applicazione il principio, consolidato, per cui (secondo quanto qui specificamente interessa) il danno permanente futuro, consistente nella necessità di sostenere una spesa periodica vita natural durante (nella specie, per spese mediche e di assistenza a persona invalida permanente al 95%), deve essere liquidato, ai sensi dell’art. 1223 c.c., stimando il costo presumibile delle prestazioni di cui la vittima avrà bisogno in considerazione delle menomazioni da cui è afflitta, rapportato alla durata presumibile dell’esborso e, quindi, per il numero di anni che lo stesso verrà sopportato (tra le altre: Cass. 11393/2019; Cass. n. 17815/2019; Cass. n. 13881/2020; Cass. n. 13727/2022; Cass. n. 16844/2023).

Di qui, pertanto, la coerente precisazione della citata Cass. n. 11393/2019 (che ha confermato la decisione impugnata in punto di liquidazione dell’importo annuale delle spese mediche dovute per assistenza fisioterapica per la prognosi di durata della vita del danneggiato, calcolata in misura pari a 35 anni) secondo cui, ai fini della liquidazione di detto danno, rileva non la speranza di vita media nazionale, ma, per l’appunto, la prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato (per cui al criterio della “vita media” potrà farsi riferimento soltanto nel caso in cui non sia possibile una prognosi specifica sulla durata della vita del danneggiato medesimo: Cass. n. 13727/2022).

Tale principio non confligge con la diversa conclusione che, come detto (al par. 15, che precede), risulta pertinente al danno patrimoniale futuro da mancata remunerazione dell’attività lavorativa, poiché vengono in rilievo, secondo la distinzione posta dallo stesso art. 1223 c.c., danni diversamente caratterizzati.

Nell’un caso (danno patrimoniale futuro da mancata remunerazione dell’attività lavorativa) si tratta di un “mancato guadagno” e, quindi, della perdita di una utilità futura che il danneggiato avrebbe acquisito se fosse rimasto in vita più a lungo e ciò gli è stato, però, impedito dall’illecito; nell’altro caso (danno patrimoniale futuro per spese di assistenza), si configura un “danno emergente” (così esplicitamente la citata Cass. n. 17815/2019), ossia un esborso che sarà necessario sostenere, ma soltanto finché si è in vita, per cui il sopraggiungere della morte, anche se per effetto dell’illecito, farà comunque cessare quella perdita patrimoniale, con la conseguenza che non sarà più apprezzabile l’esistenza di un danno risarcibile.

Va, dunque, ribadito (e precisato) il seguente principio di diritto: il danno patrimoniale permanente futuro consistente nella necessità di sostenere una spesa periodica vita natural durante è un danno emergente e, quindi, la relativa liquidazione, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve avere come parametro temporale di riferimento la durata presumibile dell’esborso e, quindi, il numero di anni per i quali lo stesso verrà sopportato”.

Lesione vascolare nel corso di protesizzazione di anca

Maria, una donna di 70 anni, si era rivolta ai professionisti di Iuremed per ottenere giustizia e chiarezza a seguito di gravi complicanze emerse dopo un intervento chirurgico di artroprotesi totale all’anca destra. La vicenda ha sollevato questioni delicate di malasanità, connesse all’esecuzione dell’operazione e alla gestione post-operatoria.

Il caso clinico di Maria

Maria soffriva di coxartrosi bilaterale, una patologia degenerativa dell’anca, che aveva compromesso gravemente la sua mobilità e qualità della vita. In considerazione del quadro clinico, si era optato per un intervento chirurgico di protesizzazione, descritto come di routine per medici esperti. Tuttavia, nelle ore successive all’operazione, Maria ha iniziato a manifestare sintomi preoccupanti, quali ischemia e freddo all’arto inferiore destro. Trasferita d’urgenza in un’altra struttura ospedaliera, le fu diagnosticata una trombosi massiva delle arterie dell’arto inferiore, riconducibile a una “contusione arteriosa” rilevata durante un intervento vascolare correttivo.

Complicanze della patologia e gestione post-operatoria

Le complicanze legate all’intervento di protesizzazione dell’anca possono includere:

  1. Trombosi arteriosa: la formazione di trombi nei vasi sanguigni, spesso causata da lesioni dirette o indirette della parete vascolare durante l’intervento.
  2. Ischemia acuta: riduzione o interruzione del flusso sanguigno che, se non trattata tempestivamente, può portare a necrosi dei tessuti o necessità di amputazione.
  3. Sindrome compartimentale: un’eccessiva pressione nei compartimenti muscolari che richiede fasciotomie per prevenire danni permanenti.

Maria ha subito queste complicanze, che hanno comportato ulteriori interventi chirurgici, tra cui un bypass vascolare con innesto sintetico e una fasciotomia decompressiva.

Errori medici riconosciuti dai consulenti

La perizia tecnica eseguita per il tribunale ha messo in luce alcune criticità:

  1. Condotta chirurgica non adeguata: È stato rilevato un trauma contusivo ai vasi iliaco-femorali, probabilmente causato da una manovra operatoria incongrua. Questo trauma ha scatenato la trombosi, evidenziata successivamente durante la diagnostica.
  2. Errore evitabile: Secondo i consulenti, tale complicanza sarebbe stata prevenibile se fossero state adottate le necessarie precauzioni durante l’intervento.
  3. Mancata diligenza media: Si è riscontrata una violazione delle norme di buona pratica chirurgica, il che evidenzia una responsabilità diretta dell’equipe operatoria.
  4. Assenza di documentazione probante: Non sono emersi elementi che confermassero altre cause, quali l’ipotensione perioperatoria non corretta, ipotizzata senza prove specifiche.

Il ruolo di Iuremed

Grazie al supporto di Iuremed, Maria ha potuto affrontare un percorso per far valere i propri diritti, ottenendo una perizia tecnica che ha dimostrato il nesso di causalità tra le lesioni subite e la condotta chirurgica inadeguata. Il caso evidenzia quanto sia importante il ruolo di esperti legali e medici per tutelare i pazienti e promuovere la sicurezza nei trattamenti sanitari.

La storia di Maria ci ricorda che la giustizia non solo aiuta a riparare il danno subito, ma contribuisce anche a migliorare il sistema sanitario, prevenendo che errori simili si ripetano.

I 5 Casi di Vizio del Consenso nella Ordinanza della Cassazione n. 30858/2024 del 2/12/2024

L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 30858/2024 si inserisce in una vicenda che ha inizio nel 2011, quando il signor Za.Gi. convenne in giudizio l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Modena. L’oggetto del contendere era la responsabilità dei sanitari del Centro Trapianti per un trapianto di fegato avvenuto nel 2005. Il paziente lamentava che l’organo impiantato fosse non idoneo poiché proveniente da un donatore deceduto per intossicazione da monossido di carbonio. Tale intervento, seguito da complicanze e un ulteriore trapianto nello stesso giorno, avrebbe causato danni biologici e morali, oltre a violare il suo diritto all’autodeterminazione per un’informazione insufficiente sul trapianto.

Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Modena riconobbe il danno per violazione del consenso informato. Tuttavia, in appello, la decisione venne ribaltata, rigettando le domande del ricorrente. La vicenda approdò così in Cassazione, che con questa pronuncia ha delineato in dettaglio i presupposti per la risarcibilità nei casi di consenso informato, fornendo un quadro teorico articolato in cinque ipotesi di vizio del consenso.

La Corte ha esaminato il tema della responsabilità medica per la violazione del consenso informato e identificato cinque scenari distinti:

1. **Consenso presunto e danno iatrogeno da condotta colposa del medico** 

   – Se il paziente avrebbe comunque accettato l’intervento (consenso presunto), ma il trattamento ha peggiorato le sue condizioni di salute a causa di una condotta colposa del medico, è risarcibile il solo danno alla salute.

2. **Dissenso presunto e danno iatrogeno da condotta colposa del medico** 

   – Quando il paziente avrebbe rifiutato l’intervento se correttamente informato (dissenso presunto), e il peggioramento della salute è causato da una condotta colposa, sono risarcibili sia il danno alla salute che il danno per lesione del diritto all’autodeterminazione.

3. **Dissenso presunto e danno iatrogeno senza condotta colposa del medico** 

   – In caso di dissenso presunto, con danno iatrogeno ma assenza di colpa medica, si risarcisce la sola violazione del diritto all’autodeterminazione, valutata equitativamente. Il danno alla salute viene considerato solo se il paziente dimostra che non avrebbe comunque accettato l’intervento.

4. **Consenso presunto senza danno iatrogeno** 

   – Se il paziente avrebbe acconsentito all’intervento e questo non ha causato alcun danno, non è dovuto alcun risarcimento.

5. **Consenso presunto, danno iatrogeno senza condotta colposa** 

   – Quando il paziente avrebbe accettato l’intervento e il danno deriva da complicanze inevitabili (senza colpa medica), il risarcimento è possibile solo se il paziente dimostra conseguenze dannose non patrimoniali, diverse dal danno alla salute, come la sofferenza psichica o la restrizione della libertà personale.

Questa ordinanza rappresenta un contributo importante nella definizione dei confini tra responsabilità medica e diritto del paziente all’autodeterminazione. Essa chiarisce che il risarcimento per il vizio del consenso informato non può essere automatico, ma deve basarsi su una valutazione rigorosa delle circostanze specifiche, incluso il comportamento del medico, la presenza di un danno alla salute e l’effettiva lesione del diritto all’autodeterminazione.