Neuropatia da ritardata rimozione del gesso

Biagio ha 43 anni all’epoca dei fatti, quando subisce un brutto incidente: cade dal decimo piano di uno stabile, riportando un politrauma con fratture multiple. È quindi portato con urgenza presso un ospedale marchigiano. Presenta un serio trauma cranico, con fratture multiple alle braccia. È subito operato ma dopo l’intervento, accusa forti dolori al braccio sinistro e non riesce a muovere alcune dita della mano. Biagio è un cameriere e non è facile per lui lavorare in queste condizioni. Insieme a IUREMED cerca di fare chiarezza su quanto è accaduto in sala operatoria.

Neuropatia: il contesto

La neuropatia è un disturbo che coinvolge uno o più nervi periferici, per un trauma subito (incluse le lesioni durante gli interventi chirurgici), per la presenza di specifiche patologie o per altri fattori.

È dunque una patologia a carico dei nervi del sistema nervoso periferico che sono fasci di fibre nervose avvolti da guaine connettivali che le proteggono e che consentono di accelerare la propagazione dell’impulso nervoso.

Tra i sintomi di una neuropatia sensitiva ci sono: formicolio nella zona del nervo danneggiato, intorpidimento e perdita di sensibilità tattile, termica e dolorifica, fitte, difficoltà nei movimenti di precisione delle dita e diminuzione della forza muscolare.

I Fatti

Dopo la caduta dal decimo piano di un palazzo, Biagio è ricoverato con un urgenza presso un ospedale nelle Marche. Riporta gravi fratture multiple, anche a livello del cranio e delle braccia. Entra in sala operatoria per l’inserimento di un chiodo gamma per la frattura del polso con ingessatura, così come è ingessato il piede destro per una frattura metatarsale, mentre non c’è nessuna indicazione chirurgica per il trauma cranico.

Dopo una decina di giorni si manifesta un’intolleranza al gesso del polso sinistro, con perdita di sensibilità alla mano. I medici aprono il gesso e non rilevano segni di compressione o deficit vascolari e dopo un paio d’ore la situazione migliora. A distanza di due di giorni, Biagio è sottoposto a RX che evidenzia una frattura scomposta per la quale è necessario intervenire chirurgicamente con l’inserimento di una placca metallica. Dopo alcuni giorni dall’intervento, il controllo della motilità della mano sembra buona, senza deficit particolari. Dopo tre giorni dal controllo è tolto il drenaggio al polso ma si rileva la difficoltà per Biagio di estendere le dita della mano sinistra. È quindi sottoposto a ecografia per escludere lesioni ai tendini ma si rileva del versamento nella guaina dei tendini estensori. Inizia la fisioterapia ma le parestesie (disturbo della sensibilità con l’insorgenza di formicolii, pizzicori, prurito, punture di spillo, ecc.) al IV e V dito permangono. La RX al gomito rileva, invece, segni di paresi del nervo ulnare della mano sinistra.

Dopo essere sottoposto a ulteriori indagini diagnostiche e fisioterapia, Biagio è dimesso dopo circa un mese di degenza, con la prescrizione di proseguire il trattamento riabilitativo.

Dopo una settimana, esegue una EMG (elettromiografia) presso un altro nosocomio che rileva una neuropatia acuta del nervo ulnare.

Biagio torna al controllo presso l’ospedale che l’ha operato e le sue condizioni non sono migliorate. I clinici, infatti, osservano una limitazione funzionale della mano per dolore e scarso controllo delle dita esterne, nonché parestesie alle ultime tre dita e deficit di forza al polso sinistro.

Le responsabilità mediche

Secondo le considerazioni della CTU, Biagio è stato adeguatamente seguito e trattato, così come era indicato l’intervento al polso sinistro. Il decorso post-operatorio, infatti, si è complicato più tardi con la neuropatia periferica. È una complicanza abbastanza rara ma si poteva evitare con un attento monitoraggio del paziente, con la rimozione tempestiva del gesso e la misurazione della pressione compartimentale, come indicato nelle linee guida mediche di riferimento.

Il danno neurologico, quindi, è ascrivibile a una subentrata sindrome che ha determinato le complicanze che Biagio ancora lamenta e una riduzione della capacità lavorativa.

Il danno è stato quantificato nella misura del 18%.

Perdita dell’occhio per infezione in intervento di cataratta

La storia di Agostina, 77 anni, inizia nel 2020 quando entra in una clinica pugliese per operarsi di cataratta all’occhio destro mediante facoemulsificazione. Ma l’esito dell’intervento è negativo e la donna, non solo riporta una seria infezione oculare, ma deve operarsi più volte per arrivare alla totale perdita dell’occhio, sostituito da una protesi oculare.

Si rivolge a IUREMED per ottenere un giusto risarcimento per il danno subito a seguito di una procedura ormai considerata di routine ma che per lei ha comportato una gravissima conseguenza.

Cataratta e facoemulsificazione: il contesto

La rimozione della cataratta è ormai un intervento semplice e non invasivo. La cataratta, nello specifico, è l’opacizzazione del cristallino, la lente che naturalmente ciascuno di noi ha nell’occhio e che, con l’avanzare dell’età, perde trasparenza, fino a opacizzarsi del tutto, rendendo la visione più difficoltosa. La sostituzione del cristallino si esegue togliendo quello opacizzato e inserendo al suo posto una lente artificiale perfettamente trasparente, detta anche lente intraoculare.

La tecnica per fare questo è chiamata facoemulsificazione e consente di rimuovere il cristallino opaco per frammentazione a ultrasuoni. Il cristallino, infatti, è contenuto in una capsula, quindi dopo averlo frammentato, il chirurgo lo aspira, così da creare lo spazio necessario alla lente intraoculare. Questa tecnica dura circa 20 minuti, si esegue in regime ambulatoriale e non prevede punti di sutura.

I Fatti

Agostina deve operarsi di cataratta all’occhio destro e per questo si ricovera presso un nosocomio barese per sottoporsi a un intervento di facoemulsificazione. L’esito dell’operazione però non è positivo, poiché insorge una grave infezione ospedaliera endoculare, una endoftalmite batterica, che necessita di un successivo intervento.

Dopo essere dimessa, infatti, Agostina si reca, il giorno seguente, in Pronto Soccorso perché accusa un forte dolore all’occhio operato. È in questa sede che si scopre l’infezione.

Ma anche la seconda operazione chirurgica ha un esito fallimentare per un grave errore da parte del chirurgo che si rende responsabile di due lacerazioni della retina, tamponate con olio di silicone.

Il decorso operatorio è descritto nella cartella clinica come regolare e la donna è dimessa. Dopo due mesi, però si sottopone a un intervento di asportazione dell’olio di silicone per una diagnosi di ipertono oculare.

La complessa vicenda clinica di Agostina però non finisce qui. In seguito allo sviluppo di un leucoma corneale (una patologia della cornea con opacità biancastra della stessa), la donna entra nuovamente in sala operatoria per un intervento di cheratoplastica, cioè un trapianto di cornea.

Tuttavia, a causa delle complicanze insorte dopo l’operazione e il mancato recupero funzionale dell’occhio, ormai cieco e dolente, Agostina si rivolge a un altro specialista che può ormai sottoporla soltanto a un intervento di exenteratio bulbi, cioè di eviscerazione del bulbo oculare.

Attualmente Agostina ha una protesi oftalmica e può vedere soltanto con l’occhio sinistro.

Si trova quindi in condizioni ben peggiori rispetto al primo ingresso in ospedale e per un intervento ormai considerato sicuro e routinario.

Le responsabilità mediche

Dall’analisi della CTU emerge che Agostina è stata costretta a sottoporsi a più interventi, poiché nel primo è insorta una grave infezione batterica dovuta a una carenza di sterilizzazione degli strumenti chirurgici o per contaminazione delle soluzioni per irrigare l’occhio.

Il secondo intervento riparatore ha peggiorato di molto il quadro clinico, poiché durante la rimozione delle membrane adese alla retina, il chirurgo ha provocato due rotture retiniche, causando un danno biologico differenziale del 23% con quantificazione economica dal 6 all’28%.

Le responsabilità mediche sono quindi accertate, così come la mancata tempestiva terapia antibiotica dopo il primo intervento. Anche il leucoma corneale può essere stato determinato da un processo degenerativo dovuto all’olio di silicone.

La vicenda si conclude con una transazione tra le parti.

Intervento alla colecisti complicato da lesione delle vie biliari

La storia di Assunta, 72 anni all’epoca del ricovero, inizia con una diagnosi di calcolosi della colecisti. Entra quindi in un ospedale romano per un intervento di colecistectomia laparoscopica ma la situazione si aggrava a tal punto che la donna entra ed esce dall’ospedale per alcuni anni anni. L’operazione ha comportato una complicanza piuttosto seria che ha compromesso la qualità della vita di Assunta, la quale decide di chiedere un equo risarcimento per i danni subiti.

Calcolosi della colecisti e colecistectomia: il contesto

Con il termine di calcolosi della colecisti si intende la presenza di calcoli nella colecisti, causata dal deposito dei sali che costituiscono la bile. Si formano dei veri e propri “sassi”, cioè i calcoli, le cui dimensioni possono variare da pochi millimetri a vari centimetri.

In molti casi non si manifesta nessun sintomo e il riscontro avviene in seguito all’esecuzione di una ecografia dell’addome, effettuata per altri motivi.

Solitamente la sintomatologia è contraddistinta da generici disturbi digestivi dopo i pasti, ma la classica manifestazione è la colica biliare che si rivela generalmente con dolore sotto l’arcata costale destra. Al dolore si può associare nausea e vomito. La situazione può complicarsi con un’infezione della colecisti, detta colecistite, che si manifesta, oltre che con dolore, con febbre e brividi.

Il trattamento della calcolosi della colecisti è prevalentemente di tipo chirurgico, in cui l’operazione è effettuata soprattutto per via laparoscopica (colecistectomia laparoscopica).

È una chirurgia mini-invasiva che si esegue introducendo una telecamera nell’addome, attraverso una piccola incisione a livello dell’ombelico e mediante altre due piccole incisioni dove si inseriscono gli strumenti usati per l’intervento. La telecamera proietta le immagini su un monitor e tutto l’intervento si svolge guardando il video.

I Fatti

Assunta, una casalinga di 72 anni è ricoverata presso un nosocomio romano per sottoporsi a un intervento di colecistectomia laparoscopica in seguito a una diagnosi di calcoli alla colecisti.

Uscita dalla sala operatoria, in seguito alla presenza di bile nel drenaggio è sottoposta a TAC addome e RM che evidenziano un’anomalia a livello dei due rami biliari destro e sinistro. Dopo un paio di settimane quindi Assunta entra nuovamente in sala operatoria. Il referto istologico riferisce una colecistite cronica riacutizzata e gangrenosa con infiltrato infiammatorio. È trasferita presso un altro ospedale con una diagnosi di fistola del dotto biliare (una complicanza della chirurgia epato-biliare in cui la maggior parte guarisce spontaneamente oppure dopo una “decompressione biliare” ottenuta endoscopicamente).

In pratica si è verificata una lesione della via biliare principale in seguito alla colecistectomia.

Dopo una serie di accertamenti ed esami e il controllo del funzionamento del drenaggio, Assunta è dimessa dopo più di mese e mezzo di ricovero. Durante i controlli ambulatoriali prescritti, il drenaggio però non funziona correttamente e la donna ha febbre e brividi. Si decide di togliere il drenaggio ma ai successivi controlli Assunta riporta alcuni sintomi tra cui ittero, febbre alta e rialzo dei valori della bilirubina. È di nuovo ricoverata e sottoposta a TAC addome che evidenzia una dilatazione delle vie biliari. Alcuni mesi dopo è sottoposta a “Bi-dutto-digiunostomia su ansa a Y”, un intervento di ricostruzione dopo lesioni biliari post-operatorie, ma il decorso è caratterizzato da una fistola biliare estesa.

Il calvario per Assunta, quindi, non finisce ed è sottoposta ad altri interventi e accertamenti. Inoltre, la coltura del drenaggio evidenza la presenza di infezione batterica da Enterococco faecium da trattare con antibiotici. Anche gli esami cardiologici non sono ottimali così come quelli epatici e la donna è costretta a ricoverarsi più volte.

Nel 2020 entra nuovamente in ospedale per sepsi colangitica da Escherichia coli con cardiopatia e ipertensione. Presenta febbre alta e dolore addominale. Dopo mesi di accertamenti, osservazione clinica e revisione del drenaggio (che resta comunque fisso), Assunta è dimessa, ma dopo qualche mese si reca in Pronto Soccorso per febbre alta e la diagnosi è di setticemia da Escherichia coli. I medici cercano di normalizzare la situazione, ma dopo un paio di mesi Assunta torna in PS, sempre per febbre alta e problemi al drenaggio.

Quello di Assunta è un vero calvario, entra ed esce dall’ospedale, con un quadro clinico in peggioramento.

Le responsabilità mediche

La CTU concentra le sue considerazioni sulle lesioni iatrogene delle vie biliari durante l’operazione di colecistectomia. Le cause di queste lesioni possono essere diverse: obesità del paziente o pregressi interventi addominali, inesperienza del chirurgo, anomali anatomiche, alterazioni infiammatorie della colecisti. Nel caso di Assunta, l’indicazione della colecistectomia era corretta, ma al momento dell’intervento il chirurgo si è trovato di fronte a un complesso quadro infiammatorio e a delle aderenze. Dall’esame della documentazione medica, emerge poi un’inavvertita chiusura con clip della via biliare. Inoltre, l’esecuzione della procedura non ha tenuto conto di alcuni accorgimenti che avrebbero potuto evitare la lesione delle vie biliari. Nonostante il rapido riscontro da parte del personale medico del secondo ospedale nel cercare di rimediare al danno iatrogeno, la complessità del danno stesso ha comportato tutta una serie di eventi a cascata, nonché l’infezione batterica.

La CTU afferma quindi che il danno causato non è una complicanza non prevenibile ma è stato determinato da una procedura chirurgica imprudente che non ha tenuto conto dei rischi insiti nella complessità del quadro clinico della paziente.

La vicenda si conclude con una transazione tra le parti.

Lombosciatalgia ed errore nell’intervento di artrodesi

La vicenda di Matilde, 65 anni all’epoca dei fatti, inizia con un forte dolore alla schiena che l’affligge già da molto tempo, a livello del rachide. Per più di 6 mesi ha indossato un bustino, mentre dai farmaci non trae più alcun beneficio. Pertanto, inizia un percorso diagnostico per valutare il da farsi dal punto di vista medico. Esegue una TC alla colonna e una RM lombosacrale, per poi ricoverarsi presso una clinica privata e sottoporsi a un’operazione di artrodesi posteriore L4/L5/L6.

Ma dopo l’intervento, il dolore non passa, nemmeno con i farmaci e Matilde è costretta a operarsi per la seconda volta per un errore chirurgico.

Si rivolge quindi a IUREMED per richiedere un equo risarcimento per il danno subito.

Lombosciatalgia e artrodesi: il contesto

La lombosciatalgia, detta anche sciatica o sciatalgia lombare, è una condizione caratterizzata da dolore alla parte bassa della schiena, all’altezza delle vertebre lombari, che può irradiarsi lungo la gamba. È causata da un’infiammazione del nervo sciatico. Il dolore acuto, simile a una scossa elettrica, è il sintomo principale, cui si possono associare alterazioni della sensibilità quali formicolio, intorpidimento, riduzione della forza di alcuni muscoli della gamba, del piede, della coscia e conseguenti difficoltà a camminare.

Spesso è dovuta, appunto, a una compressione del nervo sciatico, provocata da alcune condizioni come: ernia del disco, sperone osseo (cioè, una protrusione che si forma sulla superficie di un osso) sulla colonna vertebrale, restringimento della colonna vertebrale (stenosi spinale), trauma o lesione spinale, infezione o, più raramente, tumore.

L’artrodesi delle vertebre lombari, invece, è una tecnica chirurgica che permette di stabilizzare la colonna per ridurre dolori o deformità.

È un intervento che consente di unire le ossa del tratto lombare della colonna vertebrale con o senza l’inserimento di impianti (viti, barre, placche) di metallo o non metallici.

I Fatti

Dopo una serie di accertamenti ed esami diagnostici, Matilde, che soffre ormai da tempo di una forte lombalgia, è ricoverata presso una clinica torinese per eseguire un intervento di artrodesi posteriore L4/L5/L6.

È dimessa con prescrizione di terapia medica e fisica e l’uso di un busto.

Dopo alcuni mesi dall’operazione però il dolore non solo non migliora, ma si aggrava ulteriormente. Matilde allora si sottopone ad altri accertamenti e si rivolge alla struttura che l’ha operata. Il medico responsabile del servizio chirurgia vertebrale ammette un errore nell’intervento chirurgico e si dice disponibile a operare nuovamente con una metodica più adeguata. Matilde è quindi operata una seconda volta e dimessa con terapia fisica, farmacologica e bustino da portare per tre mesi.

Ma il dolore persiste e dopo un mese la donna si reca presso un ospedale torinese per altri accertamenti clinici. Il dolore è continuo a livello costale e non riesce a stare dritta nemmeno con i farmaci.

Le responsabilità mediche

Nonostante il secondo intervento correttamente eseguito, le condizioni cliniche di Matilde non sono migliorate. La donna presenta e presentava un grave stato artrosico e la degenerazione aveva già comportato sintomi di compressione neurologica. Infatti, anche l’esame elettromiografico refertava la presenza di deficit a carico del nervo sciatico destro.

L’intervento, quello correttivo, ha ripristinato qualcosa ma le perdite funzionali non sono ormai recuperabili.

Matilde inoltre versa in uno stato depressivo che comunque non aiuta un recupero completo.

Gli esperti della CTU ritengono che il primo intervento chirurgico sia stato inadeguato per un’erronea progettazione. Infatti, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere eseguito l’intervento che fu poi proposto successivamente.

In pratica Matilde fu sottoposta a un secondo intervento poiché la tecnica chirurgica della prima operazione non era corretta.

Il danno biologico permanente è stato calcolato considerando gli esiti di un intervento correttamente progettato ed eseguito e confrontandoli con quelli attuali. Il quadro anatomo-clinico attuale è tale da comportare un’invalidità permanente quantificabile intorno al 25%.

Matilde decide di avvalersi di una mediazione, per una transazione in via bonaria con la clinica, che le consente di ottenere un equo risarcimento.

Negligente resezione del retto per sindrome da defecazione ostruita

È il 2015 quando Luciana, 53 anni all’epoca dei fatti, si ricovera presso una clinica pugliese con una diagnosi di rettocele recidivo e per essere quindi sottoposta a un intervento di resezione mediana del retto. Ma l’operazione, che avrebbe dovuto risolvere il problema di Luciana e cioè una sindrome da defecazione ostruita, non comporta un miglioramento della condizione clinica della donna, tutt’altro. Luciana lamenta dolore, gonfiore addominale, assenza di stimolo ad andare in bagno, astenia e l’uso di device per lo svuotamento intestinale. Insomma, qualcosa è andato storto.

Luciana quindi si rivolge a IUREMED per richiedere e ottenere un giusto risarcimento per il danno subito.

Sindrome da defecazione ostruita e rettocele recidivo: il contesto

La sindrome da defecazione ostruita è una condizione contraddistinta, come indica anche il nome, dall’impossibilità di defecare in modo naturale, da una sensazione di evacuazione incompleta e da uno sforzo prolungato.

Il sintomo più evidente è la forte stitichezza, sforzi eccessivi per evacuare, avere bisogno di più di 15 minuti per defecare, andare in bagno solo una o due volte alla settimana, la sensazione di non aver liberato il retto completamente o il bisogno di utilizzare un dito per completare l’operazione.

L’ostruzione può essere causata da alterazioni anatomiche o da ingombri del tratto finale del retto (come ad esempio tumori, prolasso della parete intestinale e rettocele). Quest’ultimo caso, che riguarda soprattutto le donne, prevede la formazione di una piccola cavità che si viene a creare nell’intestino e dove si vanno a depositare resti di feci difficili da espellere.

In alcuni casi, infine, l’origine può essere legata a disturbi neuromuscolari che impediscono al retto e al canale anale di contrarsi regolarmente.

Il rettocele è quindi una condizione piuttosto comune ed è definito come un’erniazione della parete anteriore del retto in vagina, come conseguenza di un cedimento della struttura muscolare del pavimento pelvico e del setto retto-vaginale. In pratica, è lo scivolamento totale o parziale della parete dell’intestino retto dalla sua sede anatomica verso la vagina.

Tra le cause possono esserci: gravidanze plurime, obesità, lassità dei tessuti muscolari dovuta all’età e forse una predisposizione genetica.

Il trattamento chirurgico può essere necessario se i sintomi sono molto fastidiosi e invalidanti o se il rettocele anteriore è ampio e il prolasso fuoriesce dalla vagina.

L’operazione, che può essere eseguita con diverse modalità (chirurgia a cielo aperto, laparoscopia o con una tecnica minimamente invasiva detta STARR), solitamente consiste nella rimozione del tessuto in eccesso e nel posizionamento di punti di sutura o di una rete per sostenere le strutture pelviche.

I Fatti

Luciana soffre di sindrome da defecazione ostruita che le crea molto disagio e che ha comportato anche la comparsa di un rettocele recidivo; pertanto, è ricoverata per subire un intervento di resezione del retto.

Ma uscita dalla sala operatoria, la situazione non è migliorata e non si è arginata in nessun modo la progressione della preesistente sindrome da defecazione ostruita. Le condizioni cliniche di Luciana si sono anzi aggravate rispetto al preoperatorio e la donna lamenta un forte dolore e gonfiore addominale, assenza dello stimolo della defecazione, con necessità di device per lo svuotamento intestinale, grave astenia e uno stato ansioso-depressivo, che incide negativamente sull’equilibrio psico-fisico e sulla vita di relazione.

Luciana, pertanto, dopo l’intervento andato male non riesce più a svolgere le normali attività quotidiane, perché i dolori la obbligano a fermarsi. Non può nemmeno svolgere semplici lavori domestici come lavare il pavimento. Ha dovuto perfino abbandonare l’attività fisica a causa dei dolori alla pancia e ridurre le occasioni di socialità, perché non riesce a camminare per troppo tempo, né a stare seduta. Quindi, niente gite, niente cinema, niente vacanze, perché non è facile gestire l’igiene personale in queste circostanze.

Tutto questo si ripercuote sulla vita familiare e di coppia, non solo per i dolori ma anche per gli stati di ansia. Luciana si vergona quando deve andare in bagno e inizia a temere altre visite mediche ed esami diagnostici.

Le responsabilità mediche

Ma cosa è accaduto? Secondo la Letteratura medica internazionale e la pratica clinica condivisa dalle società scientifiche di riferimento, la resezione del retto eseguita per via addominale non risulta tra gli interventi indicati per il trattamento della sindrome da defecazione ostruita, anche in presenza di rettocele e/o prolasso rettale interno.

L’esame istologico e i referti dei test strumentali eseguiti rilevano che la resezione del retto alla quale la donna è stata sottoposta può definirsi parziale e che il segmento di retto asportato non può essere responsabile del progressivo peggioramento della capacità defecatoria, sino all’assenza dello stimolo.

È invece probabile che sia attribuibile al progressivo peggioramento clinico della sindrome da defecazione ostruita. Pertanto, è stata rilevata la responsabilità, la negligenza e l’imprudenza dei medici che sottoposero Luciana a intervento chirurgico di “resezione anteriore del retto”, una scelta non riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale come intervento chirurgico da eseguire per il trattamento del rettocele e della defecazione ostruita.

Inoltre, è stato amputato anche un tratto di grosso intestino che, secondo il chirurgo, avrebbe migliorato il transito delle feci, dovendo percorrere una distanza più corta. La resezione di parte dell’intestino sarebbe stata necessaria, secondo il chirurgo, per ottenere la riparazione strutturale della parete addominale. Da tale intervento, attuato per risolvere una condizione medica chiamata megaretto (dilatazione dell’intestino retto), presente nei verbali operatori ma mai indicata nei referti degli esami diagnostici, non ne è derivato però alcun beneficio. Anzi, la donna presenta una cicatrice chirurgica di circa 20 cm e un laparocele di circa 2. A questo si aggiungono le aderenze addominali, presenti in oltre il 90% degli interventi chirurgici addominali e responsabili di un dolore cronico all’addome e che, nei casi più gravi, possono comportare serie complicanze.

Grazie all’assistenza di Iuremed, all’esito della CTU, si giunge ad una transazione che consente a Luciana di ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Mal posizionamento del paziente sul lettino operatorio con danno permanente alla spalla.

Aldo, 75 anni all’epoca di fatti, è operato alla spalla destra per acromionplastica con resezione della clavicola (l’acromion è la sporgenza ossea di forma triangolare che permette alla scapola di articolarsi con la clavicola). Nonostante l’operazione però il dolore persiste, quindi si sottopone a diversi esami diagnostici che evidenziano una mielo-radicolopatia cervicale e lombosacrale, una patologia che colpisce la colonna vertebrale ed è causata dal restringimento del canale midollare o dalla compressione delle radici o del midollo cervicale. È operato nuovamente, ma stavolta nel post-operatorio si accorge che non può più muovere la spalla e il braccio sinistro, ha subito un danno permanente. Non può più quindi essere autonomo in diverse situazioni: non riesce a vestirsi da solo, non può sollevare oggetti, non può andare a pesca o a giocare a bocce con gli amici. È avvilito, perché deve farsi aiutare dalla moglie nelle normali attività quotidiane.  Si rivolge quindi a IUREMED per valutare il suo percorso clinico e richiedere un risarcimento per il danno subito.

Mieloradicolopatia cervicale: il contesto

La mielo-radicolopatia cervicale è una patologia abbastanza diffusa che colpisce la colonna vertebrale ed è causata dal restringimento del canale midollare o dalla compressione delle radici o del midollo cervicale. Si manifesta con dolori localizzati nella zona del rachide cervicale e/o agli arti superiori, debolezza a carico del braccio e della mano, rigidità delle gambe, perdita di equilibrio e urgenza a urinare. La progressione dei sintomi può variare nel tempo.

Il trattamento è chirurgico e mira a eliminare la compressione del midollo spinale per prevenire la progressione dei sintomi.

I Fatti

Aldo si sottopone nel 2018 a un intervento chirurgico alla spalla destra per un forte dolore al collo e alla schiena. Ma il dolore non passa con l’operazione. Si sottopone a diversi accertamenti diagnostici che evidenziano una situazione a livello osseo non proprio ottimale e un quadro clinico di mielo-radicolopatia cervicale e lombosacrale con diverse ernie. L’anno successivo entra di nuovo in sala operatoria per artrodesi e decompressione midollare/radicolare. L’intervento dura 14 ore ma Aldo, nonostante muova bene le gambe, presenta un deficit motorio alla spalla sinistra, in particolare del muscolo deltoide. È dimesso con la prescrizione di una terapia farmacologica e controllo con RX dopo 60 giorni. Inizia anche la fisioterapia, ma la situazione non migliora.

Le responsabilità mediche

Il parere del medico legale che ha esaminato tutta la documentazione medica di Aldo rileva delle non conformità nella condotta dei sanitari che hanno operato l’uomo. Nel secondo intervento, infatti, si è verificato un mal posizionamento del paziente sul lettino durante l’operazione. Con una maggiore cautela durante l’intervento chirurgico si sarebbe potuta evitare la problematica alla spalla sinistra. Inoltre, non si può affermare che si trattasse di una complicanza dell’operazione, una prestazione chirurgica definita ormai “routinaria”.

Il danno biologico permanente causato al paziente può quindi riferirsi a un’operazione non correttamente eseguita ed è quantificato nella misura del 45%.

Aldo arriva a una transazione in via bonaria con l’ospedale in cui è stato operato ottenendo un risarcimento.

Carcinoma mammario non diagnosticato da ecografia al seno

La storia di Elisabetta, 31 anni all’epoca della sua vicenda clinica, inizia nel 2016 e si conclude, purtroppo, tre anni dopo con la sua morte.

La causa è un carcinoma non correttamente diagnosticato che si è rivelato fatale.

I familiari della donna si rivolgono quindi a IUREMED per capire il senso degli eventi che li ha travolti e richiedere un giusto risarcimento.

Carcinoma mammario: il contesto

Secondo i dati riportati nel 2020 dall’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) e dall’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), il tumore della mammella resta la neoplasia più frequente in Italia.

Con più di 54.000 nuove diagnosi in un anno, rappresenta circa il 30% di tutte le neoplasie che colpiscono le donne e circa il 15% dei tumori diagnosticati in Italia.

Tuttavia, se l’incidenza (numero di nuovi casi) cresce leggermente, soprattutto nelle donne più giovani, la mortalità si abbassa.

È una malattia potenzialmente grave se non è riconosciuta e curata in tempo. È causata dalla proliferazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in cellule maligne. Riescono a staccarsi dal tessuto originario per invadere quelli limitrofi e, con il tempo, anche gli organi più distanti.

In via teorica, tutte le cellule del seno possono dare origine a un tumore, ma solitamente il cancro ha origine dalle cellule ghiandolari (dai lobuli) o da quelle che formano la parete dei dotti.

Sono diversi i tipi di tumore del seno, così come i metodi di classificazione.

Nella maggior parte dei casi si tratta di carcinomi, cioè tumori che partono dalle cellule epiteliali.

Il carcinoma duttale, invece, si sviluppa dalle cellule dei dotti e può diffondersi anche oltre la parete del dotto stesso. Rappresenta tra il 70 e l’80 % di tutte le forme di cancro del seno.

Il carcinoma lobulare parte, invece, dal lobulo e si può estendere oltre la sua parete. Rappresenta il 10-15% di tutti i tumori del seno e può colpire contemporaneamente i due seni o manifestarsi in più punti nello stesso seno.

Il carcinoma intraduttale in situ è, invece, una forma di tumore non invasiva (o pre-invasiva) con una prognosi favorevole.

I Fatti

Nel 2016 Elisabetta si reca presso uno studio privato per eseguire un’ecografia senologica di controllo. Il referto non presenta nulla di anomalo. Tuttavia, l’anno seguente la donna è ricoverata presso un ospedale di Milano per una forte lombosciatalgia a destra che non le consente di camminare bene. Gli accertamenti medici rilevano un carcinoma infiltrante della mammella sinistra, con metastasi al fegato e al rachide lombare. Da qui il mal di schiena. A questo punto i clinici ospedalieri rileggono le immagini ecografiche dell’anno prima e individuano una formazione irregolare di 9 mm, poco omogenea, che avrebbe richiesto un approfondimento diagnostico con biopsia.

Ormai non è più possibile procedere con la rimozione chirurgica del tumore e i medici propongono a Elisabetta la radioterapia che però rifiuta. È dimessa con l’indicazione di proseguire l’iter diagnostico e terapeutico presso il reparto di Oncologia.

Ai successivi esami eseguiti nel 2018 e nel 2019 il quadro clinico di Elisabetta è peggiorato, non riesce a muovere bene gli arti inferiori e non è autonoma. Si propone nuovamente la radioterapia ma la donna rifiuta ancora una volta. Poiché la sua prognosi è ormai infausta, la donna decide di sottoporsi alle terapie sperimentali del Dott. Di Bella.

Nel 2019 Elisabetta muore.

Le responsabilità mediche

Elisabetta inizia a sottoporsi regolarmente dal 2012 a visite ginecologiche e a ecografia mammaria, come forma di prevenzione. Dall’esame della CTU emerge che la donna si affidava alle cure di un medico specialista in ginecologia che la sottoponeva regolarmente a controlli ginecologici ed ecografici con cadenza annuale.

Nel 2016 il referto dell’ecografia è negativo, nonostante una massa di 9 mm, senza indicazione se nella mammella destra o sinistra, né il quadrante interessato.

Segue un periodo di alcuni mesi senza documentazione clinica e, nel frattempo, Elisabetta dà alla luce il suo secondo figlio. Per questo motivo, non è stato possibile valutare l’evoluzione del cancro.

Il tumore al seno è una delle neoplasie più diagnosticate nelle donne tra i 20 e i 49 anni ed è una malattia complessa e non facile da identificare, se non da un professionista esperto. In caso di sospetto poi è necessario un successivo controllo, anche con biopsia. Un cancro allo stadio I-II (III in casi specifici) è trattato chirurgicamente, in associazione alla radioterapia.

Nel caso di Elisabetta, l’ecografia del 2016 presenta questa formazione sospetta che andava indagata. La successiva ecografia, eseguita in ospedale, infatti, rileva senza dubbio un tumore mammario, ma ormai in uno stadio avanzato. Questo vuol dire che il medico che visitò Elisabetta, con tanto di ecografia nel 2016, avrebbe dovuto sospettare la presenza di una neoplasia e attivare tutti i successivi approfondimenti bioptici.

I medici della CTU ritengono che non sarebbe stata utile la prescrizione di una mammografia o di una risonanza magnetica, poiché avrebbe potuto ritardare ancora di più la diagnosi. Inoltre, qualora l’iter diagnostico-terapeutico fosse stato correttamente avviato nel 2016, la gravidanza già in corso avrebbe condizionato comunque l’iter stesso, limitando le possibili alternative di imaging (mammografia ed RMN con mezzo di contrasto sono controindicate in gravidanza).

Detto questo, gli esperti però confermano l’imperizia del medico specialista che aveva in cura Elisabetta, da considerarsi anche negligente e imprudente per aver omesso la necessità di opportuni approfondimenti diagnostici. Parte da qui il forte ritardo nella diagnosi di cancro, che ha comportato una netta riduzione delle possibilità per Elisabetta di sopravvivere, anche solo per alcuni anni.

I familiari di Elisabetta, il marito e i due figli, avviano una transazione in via bonaria con il medico responsabile, ottenendo un risarcimento.

Paralisi delle corde vocali dopo intervento alla tiroide

La storia di Paola, 49 anni all’epoca della sua vicenda clinica, inizia nel 2014 con un ricovero presso una clinica nel casertano. Deve essere sottoposta a un intervento di tiroidectomia totale con lobectomia bilaterale. Subito dopo l’operazione, però, Paola non respira bene e non riesce a parlare. Si reca allora presso altre strutture ospedaliere per eseguire accertamenti e visite specialistiche che evidenziano la paralisi della corda vocale destra per recisione del nervo laringeo.

Si rivolge quindi a IUREMED per capire cosa è successo in sala operatoria, per accertare eventuali responsabilità mediche e ottenere un giusto risarcimento.

Tiroidectomia: il contesto

La tiroidectomia è un intervento chirurgico che prevede la rimozione di tutta o parte della tiroide. I motivi possono essere diversi: si può praticare per un cancro alla tiroide, per la presenza di un nodulo tiroideo maligno o per una condizione di ipertiroidismo o di gozzo.

Nei casi in cui si sospetta un carcinoma della tiroide, un nodulo sospetto, un gozzo con aumento di volume e deviazione tracheale, è indicata una tiroidectomia totale.

Se i noduli sono benigni, invece, si può anche eseguire una tiroidectomia parziale, cioè rimuovere soltanto una parte della tiroide, in genere un solo lobo, sinistro o destro. Per questo motivo è anche chiamata lobectomia tiroidea destra o sinistra.

I Fatti

Paola è ricoverata presso una clinica convenzionata in provincia di Caserta per essere sottoposta a un intervento di tiroidectomia totale e lobectomia bilaterale. Il verbale dell’intervento indica il mancato coinvolgimento del nervo ricorrente destro (o nervo laringeo inferiore), così come la cartella clinica. Tuttavia, il post-operatorio di Paola non è coerente con tali indicazioni. La donna, infatti, presenta difficoltà respiratorie (dispnea) e disfonia (un disturbo caratterizzato da un’alterazione del timbro della voce, che può essere dovuta a diverse cause organiche o funzionali della laringe e delle corde vocali), che non si risolvono nel tempo. Proprio per la persistenza dei sintomi, Paola decide quindi di rivolgersi ad altre strutture mediche e di sottoporsi ad accertamenti diagnostici e a visite specialistiche. I risultati evidenziano una paralisi della corda vocale destra per recisione del nervo.

Ad oggi Paola presenta dispnea, anche a riposo, disturbi della fonazione, disfagia (difficoltà nella deglutizione) e una cicatrice chirurgica in rilievo, a collare, e ipocromica (cioè di colorito più chiaro).

Le responsabilità mediche

La consulenza tecnica di ufficio è giunta alle seguenti conclusioni. L’evento lesivo, cioè la recisione del nervo laringeo è la causa dei disturbi pneumofonici di Paola, come la disfonia e i disturbi respiratori. Si ravvisa quindi un comportamento di negligenza e di imperizia da parte del chirurgo. È dunque provata la presenza di un nesso causale tra l’errore chirurgico e l’insorgere della grave disfonia di cui Paola è ormai colpita.

L’intervento di tiroidectomia segue metodiche stabilite dalla prassi e dalle linee guida mediche, trattandosi di una prestazione sanitaria del tutto routinaria e priva di carattere di eccezionalità. È il trattamento adeguato al caso clinico di Paola ed era stato programmato, poiché non aveva carattere di urgenza.

Anche la struttura sanitaria possedeva tutti i requisiti tecnico-professionali tali da poter offrire un’adeguata prestazione. Tuttavia, la paresi di una corda vocale, nel post-operatorio, è legata senza dubbio alla lesione del nervo ricorrente omolaterale e ascrivibile alla responsabilità professionale del chirurgo.

Paola ottiene dal Tribunale di Napoli un risarcimento complessivo di euro 19.378,88 per danni biologici permanenti. 

Artrodesi di caviglia complicata da infezione ospedaliera

Gregorio all’epoca dei fatti ha 69 anni ed è ricoverato presso un ospedale ligure per artrosi tibio tarsica destra, per essere sottoposto, il giorno seguente, a un intervento chirurgico.

Durante l’operazione però contrae una grave infezione ospedaliera da Pseudomonas Aeruginosa e un anno dopo è costretto a subire un altro intervento per la rimozione dei dispositivi impiantati, anche per il focolaio infettivo alle ossa riscontrato in sala operatoria. Gregorio ha dovuto subire una lunga degenza e sottoporsi a una massiccia cura antibiotica.

Si rivolge quindi a IUREMED per ottenere un risarcimento per i danni fisici, biologici ed esistenziali.

Artrosi tibio tarsica e artrodesi: il contesto

L’artrosi tibio tarsica è una patologia degenerativa che colpisce le articolazioni della caviglia. Il sintomo più comune è il dolore e la limitata funzionalità dell’arto. Le cause possono essere congenite (presenti fin dalla nascita) o post-traumatiche. Quando è in stato molto avanzato, il trattamento indicato è quello chirurgico di artrodesi. Si tratta di una tecnica attraverso cui si esegue una “fusione” degli elementi ossei che compongono l’articolazione.

Si può eseguire in artroscopia, quindi con minore invasività, oppure a cielo aperto. È un intervento che limita parzialmente la funzionalità della caviglia, non permettendo un completo movimento, poiché blocca parti dell’articolazione. Tuttavia, consente la scomparsa del dolore.

I Fatti

Gregorio è stato vittima nel 2002 di un grave infortunio sul lavoro, dove ha riportato un trauma piuttosto serio agli arti inferiori. Dopo qualche anno si ricovera presso un nosocomio ligure, con una diagnosi di artrosi tibio tarsica destra, per essere sottoposto a un intervento di artrodesi della caviglia destra a causa del forte dolore e dell’impossibilità a camminare bene.

Il post operatorio sembra svolgersi regolarmente e Gregorio è dimesso.

Dopo qualche mese però torna in ospedale per la comparsa di un arrossamento della pelle e tumefazione della zona operata. Si sottopone agli accertamenti diagnostici del caso che rilevano un processo infettivo in atto, con osteomielite alla caviglia (infezione dell’osso).

È costretto quindi a tornare in sala operatoria per rimuovere i dispositivi impiantati. L’indagine microbiologica di questi ultimi risulta positiva allo Pseudomonas Aeruginosa, un batterio tipico delle infezioni ospedaliere. Non solo, deve sottoporsi a un trattamento antibiotico importante per debellare l’infezione, un calvario durato circa un anno.

Le responsabilità mediche

Con il termine “infezione correlata all’assistenza”, si intendono le infezioni sopraggiunte

nel corso di un ricovero ospedaliero, che solitamente si manifestano dopo 48 ore o più dal ricovero. Sono inoltre comprese anche le infezioni successive alle dimissioni o a un trattamento invasivo.

Le infezioni nosocomiali rappresentano uno dei problemi più rilevanti della medicina moderna, sia per la loro frequenza, sia per le caratteristiche del fenomeno, in quanto, seppur entro certi limiti prevenibili con l’adozione di scrupolose misure precauzionali, risultano non eliminabili definitivamente. Costituiscono, pertanto, un rischio indissolubilmente connesso all’attività sanitaria.

Sono considerate un evento sicuramente prevedibile, poiché si tratta di una delle più comuni “complicanze” che accadono in ospedale, ma sono anche definite, dalla letteratura scientifica, evitabili.

La CTU evidenzia che indubbiamente l’intervento chirurgico era indicato per il quadro clinico di Gregorio, ma si rileva anche l’infezione batterica che ha obbligato l’uomo e sottoporsi, dopo alcuni mesi, a una nuova operazione. È anche dimostrata l’associazione tra l’infezione da Pseudomonas Aeruginosa, uno dei patogeni più frequenti in ospedale, e il ricovero ospedaliero.

Gregorio ha subito pertanto un danno permanente, con un quadro di osteomielite e la rimozione dei dispositivi impiantati, e un danno temporaneo, poiché ha dovuto passare ben 206 giorni in ospedale tra visite specialistiche e ricovero.

La vicenda si conclude con un accordo con la ASL e un risarcimento pari a euro 22.000.

Melanoma oculare e approccio conservativo inadeguato

La vicenda clinica di Pasquale, pensionato e 70enne all’epoca dei fatti, inizia al Pronto Soccorso di un ospedale di Bari, dove si reca per problemi all’occhio sinistro. Pasquale ha una storia clinica complessa e ha già subito l’enucleazione dell’occhio destro per melanoma.

I medici gli consigliano una terapia con collirio e lo rimandano a casa ma Pasquale sta ancora male e torna di nuovo in P.S., dove stavolta è ricoverato e trasferito al reparto di Neurochirurgia.

Qui inizia un percorso clinico complicato, con tre operazioni chirurgiche, l’enucleazione anche dell’occhio sinistro e un calvario ospedaliero durato mesi.

I familiari di Pasquale, deceduto nel frattempo, si sono rivolti a IUREMED per una valutazione complessiva del difficile vissuto ospedaliero del loro caro e ottenere un equo risarcimento.

Papilledema e melanoma oculare: il contesto

Il papilledema è una condizione caratterizzata da un aumento della pressione all’interno o intorno all’encefalo, che causa edema di parte del nervo ottico nel punto di ingresso nell’occhio. Le cause sono diverse, come ipertensione intracranica, trauma, infiammazione del cervello (encefalite) o delle sue membrane (meningite) o un tumore.

Il melanoma oculare, invece, è un tumore raro che si sviluppa dai melanociti, cellule presenti in alcune parti dell’occhio. Nei casi di melanoma oculare, occorre distinguere tra tumore primario, cioè che parte direttamente dalle cellule dell’occhio, e tumore secondario, ovvero metastasi di altri tumori che hanno raggiunto l’occhio.

Sono più frequenti quelli che originano dall’uvea (la tonaca vascolare dell’occhio, interposta tra la sclera e la retina), dove sono presenti le cellule che producono la melanina. Rappresentano il 2% di tutti i tumori oculari e si dividono in: melanomi della coroide, dei corpi ciliari e dell’iride.

I Fatti

Pasquale, un ex meccanico ora in pensione, si reca al Pronto Soccorso per un bruciore all’occhio sinistro, già gravato da esoftalmo (protusione del globo oculare).

La storia clinica dell’uomo è un po’ complessa. Ha sofferto di leucemia mieloiode, ha il diabete e ha subito l’enucleazione (asportazione) dell’occhio destro per melanoma con l’impianto di una protesi oculare.

Giunto in ospedale, i clinici lo rimandano a casa con un collirio, ma il giorno dopo Pasquale torna in P.S. ed è ricoverato al reparto di Neurochirurgia e sottoposto a una serie di esami diagnostici. Dopo pochi giorni, entra in sala operatoria per eseguire “un piccolo taglio”, così almeno è ciò che gli dicono i sanitari. Questa volta la diagnosi è di papilledema. Il referto della TC cranio indica in realtà una formazione voluminosa extrabulbare che provoca l’esoftalmo.

L’intervento per conservare l’occhio e togliere la neoformazione, dura otto ore. Pasquale al risveglio però non vede più, non riesce ad aprire la palpebra, riferisce ai medici una sensazione di stordimento e non riesce a respirare bene.

Le successive consulenze oftalmologiche verificano la persistenza del papilledema e il distacco della retina e, dopo tre settimane dall’operazione, la TC rileva anche la presenza di un grave pneumocefalo (presenza di aria o gas nelle cavità intracraniche) come complicanza operatoria.

I medici quindi decidono di rioperarlo ma stavolta il decorso post operatorio è lento e difficile e a distanza di un mese è ancora presente un versamento ematico a livello del bulbo.

Non è consigliabile un’ennesima operazione, quindi Pasquale è dimesso e torna a casa.

Visitato da un oncologo, le notizie non sono buone: la formazione in realtà è un melanoma molto esteso e la prognosi non è favorevole.

Dopo altri accertamenti diagnostici, Pasquale è ricoverato in un altro nosocomio pugliese, dove subisce l’enucleazione anche dell’occhio sinistro, diventando completamente cieco.

La prognosi di Pasquale resta infausta e dopo qualche anno, superando comunque le aspettative, muore.

Le responsabilità mediche

Secondo il medico legale che ha redatto la CTU, il referto istologico descrive con certezza un melanoma coroidale, cioè un tumore della coroide (la membrana dell’occhio interposta fra la sclerotica e la retina). La gestione da parte dei clinici però non è stata ottimale, anche durante il primo accesso al P.S., in cui il medico mandò a casa Pasquale con un collirio in mano, senza tenere in considerazione l’anamnesi del paziente, già colpito da melanoma anni prima, e senza eseguire le indagini necessarie.

La diagnosi era dunque di melanoma coroideale in stato avanzato, infiltrante le strutture orbitali. Tale patologia ha purtroppo una prognosi infausta, con un decorso abbastanza variabile (da pochi mesi ad alcuni anni) e tende a metastatizzare frequentemente più organi.

Per questo, il suo trattamento deve essere radicale e tempestivo.

Secondo le linee guida di riferimento, infatti, nel trattamento di melanomi oculari di grandi dimensioni, la chirurgia conservativa non è un’opzione. Sarebbe stato quindi opportuno informare Pasquale che non c’era possibilità di recuperare la vista e che bisognava procedere subito con l’enucleazione dell’occhio.

La necessità poi di un secondo intervento chirurgico per una complicanza operatoria ha dilatato i tempi medi di degenza a oltre due mesi.

L’enucleazione dell’occhio eseguita fin dall’inizio avrebbe risparmiato al paziente tutti gli interventi demolitivi neurochirurgici e le successive complicanze.

Ciò che è mancato in questa vicenda è stata la carente informazione al paziente e ai suoi familiari e l’approfondimento diagnostico da parte del team operatorio, che andava condiviso consultando gli specialisti oculisti, anche in considerazione della storia ospedaliera del paziente.

Tutto il percorso clinico di Pasquale non è stato gestito come avrebbe dovuto, causando anche molta sofferenza durante la lunga degenza, per poi comunque perdere l’occhio.

I familiari arrivano a una transazione bonaria con la ASL e ottengono un risarcimento di euro 55.000.