Culpa in vigilando di paziente affetto da Alzheimer

I FATTI E LE CONSEGUENZE

In data (omissis) il sig. Michele (nome di fantasia), soggetto affetto da morbo di Alzheimer, di anni 79 all’epoca dei fatti, fu ricoverato presso l’Ospedale di (omissis) per intervento chirurgico di impianto pacemaker. Durante la degenza fu riferito ai familiari di un tentativo di fuga dall’ospedale con disorientamento del paziente. Seguiva un secondo ricovero presso la stessa struttura ospedaliera per riferito malessere. Durante tale nuovo ricovero ci fu un nuovo tentativo di fuga del Sig. Michele, ritrovato a distanza di due ore. Michele veniva quindi trasferito presso il reparto di Cardiologia dello stesso nosocomio e sottoposto ad intervento chirurgico di angioplastica con inserimento di uno stent. Seguiva nuovo ricovero presso lo stesso Ospedale per peggioramento del quadro clinico. Il giorno successivo, Michele scappava nuovamente dall’Ospedale e veniva ritrovato svestito e privo di vita davanti ad un supermercato.

Gli eredi di Michele si sono rivolti a IUREMED per accertare le responsabilità mediche della struttura ospedaliera, in particolare per la mancata predisposizione di un protocollo per la gestione dei pazienti soggetti a pericolo di fuga, come i malati di Alzheimer, ed ottenere un risarcimento per la scomparsa del loro congiunto.

LA PATOLOGIA

Il morbo di Alzheimer è un tipo di demenza che provoca problemi con la memoria, il pensare e il comportamento. Generalmente, i sintomi si sviluppano lentamente e peggiorano con il passare del tempo, diventando talmente gravi da interferire con le attività quotidiane.

L’avanzare del morbo di Alzheimer attraverso il cervello provoca sintomi sempre più gravi, tra cui il disorientamento, i cambiamenti di umore e di comportamento; una sempre più marcata confusione su eventi, tempi e luoghi; sospetti infondati relativi a famiglia, amici e persone che assistono; una più grave perdita di memoria e mutamenti di comportamento, nonché difficoltà nel parlare, deglutire e camminare.

Il malato di Alzheimer va gradualmente perdendo il senso dell’orientamento nel tempo e nello spazio. Se a questa situazione si aggiunge un evento ambientale, che il malato vive con disagio o in modo per lui minaccioso, si produce la fuga.

La fuga è quindi un gesto volontario, con un obiettivo confuso, che si sviluppa quando egli sente la necessità o di allontanarsi da un ambiente che ritiene ostile, o di andare alla ricerca di qualcuno o di qualcosa che possono risiedere anche nel suo passato. Molti di questi malati, che si sono allontanati, sono stati ritrovati sulla strada della loro casa di una volta, o in luoghi legati alle esperienze di vita trascorsa.

Deve essere quindi compito dalla struttura ospedaliera nella quale è ricoverato il malato predisporre alcuni provvedimenti preventivi in grado di impedirne la fuga, senza però provocare costrizioni che il malato possa vivere in modo opprimente e minaccioso.

LE RESPONSABILITÀ E IL RISARCIMENTO

In sede di valutazione medico legale veniva riconosciuto che il decesso di Michele era da correlare, in misura concausale, all’esposizione al freddo notturno patito. Il paziente, infatti, dopo l’allontanamento dall’0spedale veniva trovato morto seminudo vicino ad un supermercato distante dal nosocomio.

Il signor Michele era soggetto fragile affetto da cardiopatia, broncopatia e demenza di Alzheimer e già durante precedenti ricoveri vi erano stati due tentativi di fuga, fortunatamente risolti in tempi brevi e senza conseguenze nefaste.

In ragione di ciò, la responsabilità del personale sanitario dello stesso ospedale di Omissis, per quanto attiene la “culpa in vigilando”, è stata considerata grave dato che si trattava di un soggetto con demenza di Alzheimer che aveva più volte tentato la fuga dall’Ospedale in precedenti ricoveri. Si sottolinea, inoltre, che la fuga era avvenuta nelle prime ore mattutine del giorno e tale circostanza sarebbe stata in grado di consentire un’attenta e scrupolosa vigilanza del personale sanitario, alla luce anche di alcune misure e presidi di prevenzione che possono essere facilmente instaurati nelle ore notturne (ad esempio chiusura a chiave delle porte di accesso al reparto, spondine alte laterali al letto e via discorrendo).

L’evento terminale è quindi stato posto in relazione concausale agli esiti dei non conformi trattamenti sanitari praticati.

In mediazione le parti raggiungevano un accordo conciliativo, con il riconoscimento agli eredi del Sig. Michele di una somma di denaro a soddisfazione definitiva di tutti i danni e pregiudizi riscontrati, iure proprio e iure hereditatis.

Carcinoma mammario non diagnosticato da ecografia al seno

Iuremed ‪@iuremedresponsabilitamedic9173‬ con la collaborazione della Dott.ssa Benedetta De Luca, ‪@ballistic_crime‬ , medico legale in formazione, presenta i propri casi più interessanti. Le relazioni di CTU possono essere lette nella biblioteca di Iuremed Academy ( www.iuremedacademy.it ) www.iuremed.it www.benedettabalistica.it

LESIONE VESCICALE IN CORSO DI TAGLIO CESAREO

I FATTI E LE CONSEGUENZE

Maria, di anni 36 all’epoca dei fatti, gestante alla 38a settimana, si ricoverava presso l’Ospedale di (Omissis), per sottoporsi ad intervento di taglio cesareo con successiva sterilizzazione tubarica.

Nel corso dell’anno successivo, la paziente era costretta a sottoporsi a un secondo intervento chirurgico, stante l’infausta sopravvenienza di una grave stenosi uretrale.

Maria lamentava rilevanti disturbi alle vie urinarie, i quali condizionavano negativamente sia il suo equilibrio psico-fisico, che la sua vita di coppia, pregiudicando finanche i suoi rapporti interpersonali ed arrecandole disagio nello svolgimento della sua attività lavorativa di operaia specializzata.

Per tale ragione Maria si rivolgeva a IUREMED, al fine di accertare le responsabilità mediche della struttura ospedaliera dove si era operata ed ottenere un risarcimento per il danno cagionatole.

BREVI CENNI SULLA LESIONE DELLA VESCICA CAUSATA DURANTE UN INTERVENTO DI TAGLIO CESAREO

Come evidenziato da studi scientifici e medici, le lesioni della vescica durante un intervento di taglio cesareo sono abbastanza rare.

I principali fattori di rischio sono età materna, parità, pregressi tagli cesarei o precedenti interventi chirurgici pelvici (miomectomie, etc.), presenza di aderenze, taglio cesareo in corso di travaglio.

In particolare, molte lesioni si producono durante l’accesso peritoneale nel taglio cesareo primario e durante la dissezione della vescica dal segmento uterino inferiore, nei casi di tagli cesarei pregressi.

Al fine di ridurre le lesioni del tratto urinario, è raccomandabile una adeguata preparazione preoperatoria della paziente. È necessario indagare i fattori di rischio patologici remoti e i fattori di rischio legati all’anamnesi ostetrica, al fine di identificare le pazienti ad alto rischio di andare incontro a lesioni vescicali. È altresì necessario utilizzare una tecnica chirurgica meticolosa e metodica basata su un’adeguata comprensione e conoscenza dell’anatomia dell’apparato urogenitale.

LE RESPONSABILITÀ

In sede di consulenza tecnica d’ufficio veniva evidenziata nella condotta degli operatori che eseguirono l’intervento di taglio cesareo, la non corretta preparazione all’intervento, che avrebbe richiesto per la peculiarità del caso (gestante con pregresse isterotomie da TC ed intervento di miomectomia) l’opportuna cateterizzazione vescicale.

Durante l’atto operatorio, i sanitari si rendevano infatti responsabili della lesione iatrogena della vescica della paziente, il che richiedeva un tentativo di sutura della stessa; nel post-operatorio, Maria registrava la sussistenza di intensi dolori a livello vescicale, invalidanti disturbi della minzione, e persistenti cistiti recidivanti.

La presenza del catetere avrebbe con sufficiente criterio probabilistico evitato la produzione della lesione vescicale, consentendo – con un buon grado di probabilità tecnica o comunque più probabilmente che non – la corretta demarcazione tra vescica e segmento inferiore, evitando la lesione del viscere.

Peraltro tale cautela è assolutamente prevista dalle “buone pratiche cliniche” in essere all’epoca dei fatti, nonché dalla Letteratura specialistica in materia.

IL RISARCIMENTO

A conclusione del giudizio, il Tribunale adito stabiliva in favore di Maria, in accoglimento della domanda proposta, una somma a titolo di risarcimento del danno, nonché la condanna dell’Asl resistente al pagamento delle spese di lite.

FALLIMENTARE INTERVENTO DI PROTESI D’ANCA E DECESSO DEL PAZIENTE

La Sig.ra Simonetta (nome di fantasia), di 77 anni, si sottoponeva ad intervento di protesi d’anca destra per il trattamento di Coxartrosi. L’intervento in questione, però, sortiva esiti fallimentari, e le condizioni cliniche dell’anziana paziente erano inemendabilmente deteriorate dalle conseguenze dell’anzidetto intervento, tanto da determinarne il decesso, nel dicembre del 2022.

I congiunti della Sig.ra Simonetta si rivolgevano a Iuremed, ritenendo inaccettabile che un routinario intervento di protesi all’anca, fisiologico per un soggetto anziano in complessiva buona salute, fosse esitato in un decesso.

LA COXARTROSI

La coxartrosi è il progressivo deterioramento della cartilagine nell’articolazione dell’anca. La cartilagine è essenziale per evitare l’attrito tra le ossa durante il movimento, e la sua usura dà luogo ad un eccessivo sfregamento che, a sua volta, causa l’infiammazione dei tessuti molli.

Il sintomo più comune della coxartrosi è un intenso dolore locale, noto come coxalgia. Altri sintomi sono la rigidità dell’articolazione e la difficoltà nel movimento.

Cause principali della coxartrosi sono l’invecchiamento, traumi o fratture dell’anca, patologie congenite ed obesità.

Generalmente, la diagnosi viene stabilita dallo specialista ortopedico, all’esito di alcuni test (movimento, crepitio, dolore e camminata), di un esame radiografico o di una artroscopia. In base allo stadio di progressione della malattia, il trattamento può essere di tipo conservativo (farmaci antinfiammatori + fisioterapia), oppure di tipo chirurgico.

L’intervento chirurgico, come nel caso che ci occupa, consiste nell’impianto di una protesi d’anca, che sostituisce l’articolazione danneggiata, per una durata di circa 15 o venti anni. In caso di successo dell’impianto, è possibile recuperare una buona mobilità, mentre, in caso di eventi avversi di tipo meccanico o infettivo, può sorgere la necessità – come abbiamo visto – di espiantare la protesi.

LE RESPONSABILITA’

In via preliminare, come sempre accade, il dossier clinico della paziente deceduta veniva sottoposto a valutazione medico-legale. Il nostro consulente, all’esito di un approfondito studio del caso, concludeva che il trattamento chirurgico di Protesi d’anca si era rivelato fallimentare, poiché gli operatori si erano resi responsabili: a) di una lesione iatrogena del nervo femorale di destra; b) di un danno iatrogeno vascolare determinante una trombosi dell’arteria femorale comune di destra (con necessità di un secondo intervento di rivascolarizzazione); e c) di una infezione del sito chirurgico da Enterococcus faecalis, con conseguente formazione di raccolta ascessuale e necessità di un terzo intervento chirurgico di rimozione protesi e bonifica.

LA MEDIAZIONE

Sulla scorta di una consulenza medico legale deponente per un nesso causale pieno fra le condotte colpose contestate ed il decesso della Sig.ra Simonetta, IUREMED ha promosso un procedimento di mediazione nei confronti della struttura ospedaliera ove la paziente era stata ricoverata ed operata. All’esito di un proficuo confronto svoltosi tanto sul piano medico-legale, quanto sul piano giuridico, si concordava su quanto segue: “il quadro settico di matrice nosocomiale, ed il ripetuto stress chirurgico con sindrome da prolungata immobilizzazione per i diversi interventi resi necessari dal fallimento dell’impianto di Protesi d’anca, si sono rivelati letali per la Sig.ra Simonetta, che, pertanto, è andata incontro a decesso al termine di un doloroso calvario”.

Stando così le cose, la controversia veniva definita in sede stragiudiziale mediante il riconoscimento, in favore del coniuge e delle due figlie della defunta, di una congrua somma di denaro, sia a titolo di risarcimento del danno patito iure proprio per la perdita anticipata del rapporto parentale con la loro congiunta, siaquale ristoro della sofferenza patita dalla Sig.ra Simonetta nel doloroso periodo precedente il decesso, e trasmessa ai suoi familiari iure hereditatis.

Suicidio in conseguenza di omesso TSO e negligenti dimissioni ospedaliere

In data 5/6/2022, il giovane Rocco (nome di fantasia) (di anni 17 all’epoca dei fatti) veniva ricoverato, con proposta di TSO da parte di altra Casa di Cura che precedentemente lo aveva in cura, presso l’Ospedale di Milano, venendo accolto con diagnosi di “Schizofrenia tipo paranoide cronica”.

Il dato anamnestico fornito dai sanitari della Casa di Cura ove il paziente era stato ricoverato prima di accedere all’Ospedale di Milano, rappresentava con inequivocabile chiarezza la sussistenza di propositi anticonservativi, idee suicidarie e delirio persecutorio.

Nonostante tale allarmante situazione, i medici psichiatri, trascurando i cogenti e concreti segnali di pericolo in essere, dimettevano imprudentemente il giovane Rocco già due giorni dopo il ricovero.

Sprovvisto della tutela dell’ambiente ospedaliero, e non idoneamente sedato a livello farmacologico, il giovane Rocco, all’indomani delle dimissioni, poneva fine alla propria vita lanciandosi dal quarto piano della sua abitazione.

I genitori del giovane Rocco si sono rivolti a IUREMED per accertare le responsabilità mediche della struttura ospedaliera, in particolare la perdita delle possibilità di sopravvivenza per negligenza nella cura, ed ottenere un risarcimento per la scomparsa del loro figlio.

LA PATOLOGIA

La schizofrenia paranoide è un disturbo mentale caratterizzato dalla manifestazione rilevante di deliri ed allucinazioni uditive. In pratica, la persona che ne è affetta perde il contatto con la realtà che la circonda (psicosi) e risulta irragionevolmente sospettosa o diffidente nei confronti degli altri, in un contesto di funzioni cognitive preservate o minimamente ridotte.

I sintomi della schizofrenia paranoide sono spesso associati a disturbi del comportamento, alterazioni dell’affettività, pensieri o discorsi disorganizzati, atteggiamento polemico o di superiorità, manifestazioni di rabbia o violenza. Ciò si traduce in un forte disadattamento e nella difficoltà nello svolgere le attività quotidiane e nell’instaurare rapporti sociali.

Le cause specifiche sono ancora sconosciute, ma pare che lo sviluppo della schizofrenia paranoide sia multifattoriale e dipenda in modo significativo da una componente genetica e da una base biologica. Questo substrato predisponente rende il soggetto vulnerabile a manifestare la malattia, soprattutto quando intervengono eventi stressanti di tipo psicosociale o ambientale.

La schizofrenia paranoide può essere affrontata con trattamenti mirati, che consentano, nel tempo, di gestire nel migliore dei modi i sintomi della malattia.

LE RESPONSABILITÀ E IL RISARCIMENTO

In sede di valutazione medico legale veniva riconosciuto che il comportamento clinico dei medici psichiatri dell’Ospedale di Milano durante il ricovero di due giorni non fu effettuato “leges artis”, e risultava inficiato da elementi di imprudenza ed imperizia che condussero alla nefasta dimissione ospedaliera con conseguente suicidio del giovane Rocco.

Infatti, nel ricovero di alcuni giorni prima erano presenti cogenti e concreti atti anticonservativi e francamente potenzialmente suicidari da parte del giovane (chiamate al 112 riferendo idee suicidarie; più volte nei giorni del ricovero continuò a manifestare idee suicide anche dopo un importante contenimento farmacologico fino al punto che i medici della casa di cura proposero un T.S.O.). Durante il breve ricovero in psichiatria il paziente adattò un tipico comportamento di simulazione psichica al fine di essere dimesso per poter concretizzare le sue idee suicidarie.

Nel caso in questione, con una dimissione ospedaliera di soli 2 giorni dopo una proposta di T.S.O. da parte di altra struttura, non vi fu un approfondimento clinico ottimale per valutare il rischio suicidario né il tempo necessario per impostare un trattamento con psicofarmaci adeguati a un livello accettabile di compenso psichico.

L’evento terminale è stato ritenuto in diretta relazione causale rispetto agli esiti dei non conformi trattamenti sanitari praticati.

In mediazione le parti raggiungevano un accordo conciliativo, con il riconoscimento ai genitori del giovane Rocco della somma omnicomprensiva di Euro 200.000,00, a soddisfazione definitiva di tutti i danni e pregiudizi riscontrati, sia iure proprio che iure hereditatis.

Tardiva diagnosi di ependimoma cervico-dorsale con conseguente tetraplegia

I FATTI E LE CONSEGUENZE

Nel 2014 Mauro (di anni 32 all’epoca dei fatti) accedeva, per il ricorrere di intensa cervico-brachialgia destra, al P.S. dell’Ospedale di (omissis), venendo refertato per cervicalgia e dimesso con prescrizione di farmacoterapia e collare morbido per 7 giorni, in assenza di consulenza neurochirurgica e RMN cervicale. Per l’ulteriore sopravvenienza di parestesie, Mauro si recava nuovamente presso lo stesso nosocomio, venendo dimesso senza l’effettuazione dei dovuti accertamenti.

Ancora, per la comparsa di disfagia per cibi solidi, Mauro riaccedeva in Ospedale, dove non veniva immediatamente sottoposto ad esame RMN encefalo e rachide cervicale, venendo invece inopportunamente avviato a rachicentesi, con immediata sopravvenienza di tetraplegia ed insufficienza respiratoria.

Solo dopo tale acutizzazione del quadro clinico, con colpevole ritardo, i sanitari riscontravano la presenza di ependimoma intramidollare, con necessità di successivo e tardivo gravoso intervento di decompressione cervicale mediante estesa laminectomia.

Mauro riportava esiti massivamente invalidanti, essendo costretto su sedia a rotelle per paraplegia degli arti inferiori, plegia dell’arto superiore destro, paresi del sinistro, ed essendo portatore di catetere vescicale a permanenza. La complessa vicenda clinica stravolgeva l’esistenza e l’equilibrio del giovane, che in pochi mesi passava dal condurre una vita dinamica e piena di stimoli, ad una quotidianità monotona ed alienante.

Perdurando tale situazione, Mauro decedeva nell’aprile 2023 per “insufficienza respiratoria acuta e shock settico conseguenti a tetraplegia da esiti di ependimoma cervico-dorsale trattato chirurgicamente”.

I familiari di Mauro si sono rivolti a IUREMED per accertare le responsabilità mediche della struttura ospedaliera, in particolare la perdita delle possibilità di sopravvivenza per negligenza nella cura, ed ottenere un risarcimento per la scomparsa del loro familiare.

LA PATOLOGIA

La patologia caratterizzante la storia clinica di Mauro è rappresentata da un ependimoma intramidollare bulbo-cervicale Grado I WHO.

Gli ependimomi sono tumori intramidollari che hanno origine dalle cellule ependimali del canale centrale del midollo, e possono ritrovarsi a qualunque livello, con chiara prevalenza la regione dorsale ed il cono midollare; spesso si estendono in altezza per diversi metameri, fino ad occupare gran parte del midollo.

L’ependimoma dal punto di vista clinico si manifesta in differenti modi a seconda della localizzazione di malattia. Un ependimoma che interessa gli emisferi cerebrali si può manifestare con episodi di tipo convulsivo, con cefalea o con segni neurologici focali legati alla sede della malattia. Una lesione del midollo spinale si può manifestare con dolore o con deficit sensitivi e/o motori.

La diagnosi di ependimoma avviene ricorrendo a esami neuroradiologici. Di norma si predilige la risonanza magnetica nucleare, anche se spesso in prima battuta si effettua una tomografia assiale computerizzata (TAC), più facilmente disponibile in sede di pronto soccorso. Con la risonanza magnetica è possibile definire le dimensioni della neoplasia e i rapporti con le strutture circostanti del sistema nervoso centrale.

In caso di ependimoma, la chirurgia, laddove possibile, è la principale terapia. L’intervento di asportazione della massa tumorale risulta però curativo solo nel caso di ependimomi di basso grado (I o II), di dimensioni ridotte e situati in una posizione facile da raggiungere. La rimozione totale della massa tumorale, oltre a evitare il ricorso a un’eventuale e successiva radioterapia, può portare anche alla totale guarigione dal tumore. L’intervento chirurgico non è invece praticabile se il tumore è localizzato in una zona inaccessibile o se si rischia di danneggiare un’area di vitale importanza o di compromettere le funzioni fisiche o cognitive (ragionamento e di memoria) dell’individuo.

LE RESPONSABILITÀ E IL RISARCIMENTO

In sede di CTU veniva riconosciuto che, qualora fosse stata impostata una diagnosi precoce ed un altrettanto immediato trattamento chirurgico, si sarebbe potuto prevenire la successione di eventi che hanno condotto al decesso del giovane Mauro. La condizione di tetra-ipostenia e la conseguente sindrome da allettamento hanno infatti determinato tutta una serie di modificazioni fisiopatologiche, favorendo le gravi complicazioni polmonari e settiche culminate nell’exitus.

L’evento terminale è quindi da porre in relazione causale, diretta ed esclusiva, agli esiti dei non conformi trattamenti sanitari praticati.

In mediazione le parti raggiungevano un accordo conciliativo, con il riconoscimento agli eredi di Mauro della somma di € 602.000,00, a soddisfazione definitiva di tutti i danni e pregiudizi riscontrati, sia iure proprio che iure hereditatis.

Errato trattamento di frattura di spalla con tutore

I fatti

Il sig. Domenico, di anni 54 all’epoca dell’evento, si recava al Pronto Soccorso a causa di una caduta accidentale, riferendo trauma della spalla destra. In tale sede veniva sottoposto a riduzione incruenta con applicazione di tutore di spalla.

A pochi giorni di distanza, un controllo TAC riscontrava frattura pluriframmentaria scomposta del collo e del trochite omerale con lussazione della testa, per cui veniva eseguito un intervento chirurgico di artroprotesi.

Successivamente all’intervento, Domenico intraprendeva intenso programma riabilitativo con scarsissimo recupero funzionale; in ragione di ciò, venivano attuate procedure correttive con mobilizzazione in anestesia e successivo intervento di revisione con applicazione di protesi inversa.

Domenico si rivolgeva a IUREMED per fare luce sulla sua vicenda clinica e individuare le eventuali responsabilità della struttura ospedaliera presso la quale gli erano state prestate le prime cure successivamente alla caduta. 

La frattura del trochite omerale: il contesto

Il trochite omerale è una sorta di escrescenza ossea che si trova nella parte superiore dell’omero, l’osso che insieme alle scapole e alla clavicola forma il complesso della spalla; anatomicamente viene chiamato anche grande tuberosità dell’omero.

La frattura del trochite omerale è una frattura apparentemente poco importante ma, praticamente molto condizionante. Il trochite omerale ha una importanza fondamentale nell’equilibrio muscolare dell’articolazione giacché su di esso si inseriscono i muscoli della cuffia dei rotatori che servono a rendere armonico il movimento dell’articolazione.

Il trattamento più moderno è sempre quello chirurgico con una sintesi con placca che dà stabilità immediata alla frattura e permette una mobilizzazione immediata della articolazione senza bloccarla per 30-40 giorni come avviene nel trattamento incruento. La spalla è una articolazione che si irrigidisce rapidamente, per cui un mese di immobilizzazione rende dolorosa ed inadeguata la riabilitazione.

Le responsabilità mediche

Gli esperti in sede di CTU evidenziavano come le lesioni riscontrate dal Sig. Domenico durate l’accesso al Pronto Soccorso risultavano fortemente instabili e foriere di ulteriore aggravamento, se non sottoposte ad immediata stabilizzazione mediante intervento di osteosintesi e riduzione cruenta della lussazione posteriore.

La scelta dei medici curanti è stata quella di praticare ben due interventi estemporanei di riduzione della lussazione, nonché un terzo tentativo in narcosi con immediata dimissione del paziente, previa immobilizzazione in tutore. E ciò nonostante il referto TAC di controllo, eseguito dopo i predetti tentativi di riduzione, rilevava reperti sostanzialmente “invariati”, con persistenza di lussazione posteriore della articolazione gleno-omerale.

Pertanto, nella dinamica dell’intervento veniva risaltato un comportamento di negligenza e di imperizia da parte degli operatori sanitari, stanti le modalità riferite e descritte negli atti clinici.

Tale comportamento altamente imprudente determinava un considerevole aggravamento del quadro clinico del sig. Domenico, che in occasione di successivo accesso in Pronto Soccorso presentava una completa e non più emendabile pluriframmentazione della frattura, con persistenza della lussazione.

Alla luce di tali considerazioni, gli esperti in sede di CTU quantificavano un danno biologico permanente di natura iatrogena, da imputarsi all’operato dei Sanitari dell’Ospedale di (omissis) nella misura del 10% (dieci per cento), un danno biologico temporaneo in forma totale, di giorni 5 (cinque); un danno biologico temporaneo in forma parziale al 75% di giorni 30 (trenta); un danno biologico temporaneo in forma parziale al 5% di giorni 30 (trenta); ed infine un danno biologico temporaneo in forma parziale al 25% di giorni 30 (trenta).

Mastopessi errata con contestuale mastoplastica additiva

Arianna soffre di ptosi mammaria, o “seno cadente”, e per questo decide di sottoporsi a un intervento chirurgico per migliorare l’aspetto estetico del seno.

Ma qualcosa non va e, nonostante l’operazione, il seno torna cadente, è dolorante, le cicatrici sono evidenti e poco piacevoli alla vista e l’aureola appare dilatata.

Arianna quindi si rivolge a IUREMED per richiedere alla clinica il risarcimento per il danno subito. 

I Fatti

Arianna nel 2019 esegue un’ecografia alle mammelle che evidenziano una componente fibroghiandolare senza però evidenza di lesioni espansive o infiltrative, quindi sostanzialmente positiva. Si sottopone a questa indagine poiché aveva notato un certo dimagramento senza apparente motivo e ptosi mammaria (un rilassamento della pelle del seno, con conseguente caduta verso il basso della massa che lo riempie).

Dopo alcuni mesi, si ricovera presso una clinica bolognese, con diagnosi di ptosi mammaria, per sottoporsi a un intervento di mastoplastica addittiva e mastopessi, una procedura chirurgica che ridona forma e posizione a un seno cadente.

Dal verbale operatorio l’intervento è descritto come: “incisione e allestimento di tasca retroghiandolare, emostasi ed inserimento di protesi, pessi verticale con riposizionamento dei CAC, sutura e medicazione”.

È dimessa con prescrizione di terapia farmacologica, diagnosi di ptosi mammaria e prognosi di 14 giorni.

Durante la visita chirurgica di controllo, il seno però appare ancora ptosico (2-3 grado), le cicatrici sono slargate e l’areola è dilatata. Le protesi rotonde non sono adese alla parete toracica e formano un tutt’uno con la ghiandola.

Arianna inizia a soffrire per il risultato dell’intervento che considera peggiorativo rispetto al pre-operatorio, per questo inizia anche un percorso di psicoterapia per ansia, attacchi di panico e insonnia. Inoltre, ha anche difficoltà a sollevare pesi e accusa dolore al seno.

I medici le consigliano un nuovo intervento di mastopessi e posizionamento di protesi sotto muscolo pettorale per una spesa di € 12.000.

Ptosi mammaria e mastopessi: il contesto

La ptosi mammaria è il graduale spostamento verso il basso della mammella con il capezzolo che, a volte, punta verso il basso. Spesso nella zona compaiono anche delle smagliature. È una condizione comunemente detta “seno cadente” e abbastanza comune tra le donne a prescindere dalla grandezza delle mammelle. Si tratta dunque di un rilassamento della pelle e del cedimento della ghiandola mammaria, con conseguente caduta verso il basso della massa che riempie il seno. I livelli di gravità sono diversi, così come diverse sono le cause: da un forte dimagrimento, all’allattamento o alle variazioni ormonali.

La mastopessi, invece, conosciuta anche come lifting del seno, è un intervento chirurgico volto alla correzione della ptsosi mammaria. In pratica, è un rimodellamento del seno attraverso tecniche specifiche in base al grado di gravità della ptosi.

L’intervento ha un iter piuttosto complesso, una durata media variabile (da una a tre ore) e si effettua in anestesia totale.

Le responsabilità mediche

Dalla valutazione della documentazione medica, insieme ai dati derivanti dalla visita diretta, emergono alcuni aspetti.

Il primo è il risultato dell’operazione non conforme allo stato attuale e determinato da un errore di programmazione dell’intervento stesso. La mastopessi periareolare, associata alla mastoplastica addittiva con protesi sottoghiandolari in un soggetto che ha avuto un forte dimagramento, non è indicata, poiché non idonea per ottenere una correzione adeguata della ptosi mammaria.

L’allargamento delle areole e la loro ovalizzazione, nonché la diastasi delle cicatrici periareolari, sono conseguenze piuttosto frequenti in questo tipo di tecnica, poiché́ tutto il peso della mammella grava su quell’unica cicatrice e su quel filo di sutura.

Nel caso di Arianna, vi era una forte probabilità che ciò si verificasse, anche in considerazione delle caratteristiche dei suoi tessuti. Pertanto, questa tecnica andava preliminarmente discussa con la donna e non era comunque indicata al suo caso.

Le protesi utilizzate sono adeguate alla struttura fisica di Arianna, così come la mastopessi non era del tutto controindicata, ma doveva essere discussa adeguatamente con la paziente anche in merito ai risultati attesi.

Il danno estetico resta comunque evidente, così come il conseguente stato psicologico di Arianna.

Sindrome della cauda equina da ematoma extradurale

Gennaro, nome di fantasia, dopo un trattamento sanitario presso il reparto di Neurochirurgia di un ospedale siciliano, riporta una sindrome da cauda parziale con deficit sensitivo motorio, con paresi di gran parte del piede sinistro. Non riesce quindi a camminare correttamente. 

I parenti dell’uomo si rivolgono a IUREMED per capire se c’è stata negligenza medica dietro questa complicanza post-operatoria.

Cauda equina parziale e deficit radicolare sensitivo-motorio: il contesto

È una sindrome che si verifica quando le radici nervose all’estremità caudale del midollo sono compresse o danneggiate interrompendo le vie motorie e sensoriali degli arti inferiori e della vescica.

È una patologia che deriva più comunemente da un’ernia del disco nella colonna lombare. Altre cause comprendono anomalie neurologiche congenite (come, ad esempio, la spina bifida), infezione del midollo spinale, ascesso epidurale spinale, tumore o trauma del midollo, stenosi spinale, malformazione arterovenosa e complicanze dopo la chirurgia spinale.

Molte di queste condizioni causano gonfiore che contribuisce alla compressione dei nervi, paresi asimmetrica degli arti inferiori e perdita della sensibilità delle radici nervose colpite, così come disfunzioni della vescica, dell’intestino e dei genitali (ritenzione urinaria, aumento della frequenza minzionale, incontinenza urinaria o fecale, disfunzione erettile, perdita del tono rettale e alterazioni dei riflessi bulbocavernoso e anale).

Senza trattamento, la sindrome della cauda equina può causare una paralisi completa degli arti inferiori.

I Fatti

Gennaro si sottopone a intervento chirurgico presso un nosocomio siciliano ma il post-operatorio non va come dovrebbe. Riporta, infatti, una sindrome della cauda equina con deficit radicolare sensitivo-motorio parziale delle radici L4, L5 e S1 prevalente a sinistra, con paresi della flessione dorsale e plantare del piede, delle dita e dell’alluce prevalente a sinistra, accompagnata da emi-anestesia a sella a sinistra.

È un danno ben maggiore rispetto alle condizioni preesistenti dell’uomo e può essere attribuibile al ritardo dei sanitari nel trattamento di un ematoma extradurale formatosi durante l’intervento.

Dopo le dimissioni, infatti, Gennaro mostrava una paraparesi distale prevalente a sinistra associata a disturbi della sensibilità perineale che lo ha reso bisognoso di essere assistito nel passaggio da seduto in piedi e nella deambulazione.

Le responsabilità mediche

Gli esperti della CTU considerano l’ematoma extradurale una complicanza inevitabile e non imputabile ai sanitari. Tuttavia, i medici non hanno seguito le raccomandazioni delle buone pratiche cliniche e non sono intervenuti tempestivamente di fronte al sanguinamento durante intervento chirurgico, causando una compromissione funzionale. Questo ritardo, infatti, ha contribuito al danno, favorendo la progressione del sanguinamento e la compressione delle strutture nervose.

Il danno all’integrità psicofisica di Gennaro è stimato al 40%, ma va tenuto conto delle condizioni preesistenti che già riducevano la validità psicofisica del soggetto del 20%. Pertanto, il danno complessivo è del 20%, causato sia dalla complicanza emorragica post-chirurgica, evento prevedibile ma non evitabile, quindi non dipendente dalla condotta medica del chirurgo, sia dal ritardo di due giorni nel trattamento della lesione emorragica, che ha contribuito all’aggravamento del quadro anatomico, funzionale e clinico.

Gli esperti osservano anche che dal rilevamento dei sintomi, all’intervento sull’ematoma sono trascorse 48 ore, superando quindi l’intervallo di tempo tra insorgenza del disturbo e rimozione della causa entro il quale è possibile un miglioramento sostanziale del deficit neurologico acuto insorto in seguito alla compressione delle radici della cauda equina da parte dell’ematoma extradurale.

Non c’era alcun motivo per ritardare l’intervento chirurgico dopo che la RM lombosacrale aveva evidenziato l’ematoma.

Lavaggio auricolare e perforazione del timpano

Giacinta (nome di fantasia) ha 51 anni e soffre di otiti ricorrenti. Si reca quindi da uno specialista otorinolaringoiatra per detersione dell’orecchio sinistro.

Parte da qui la vicenda clinica della donna che è costretta a sottoporsi a ben 2 interventi chirurgici e a diverse visite e accertamenti per le complicazioni insorte dopo il lavaggio.

Giacinta si rivolge a IUREMED per capire se è stata vittima di una negligenza medica e se c’è stata un’eccessiva pressione del liquido che avrebbe causato il peggioramento uditivo con conseguente lacerazione della membrana timpanica.

Otite cronica colesteatomatosa e timpanoplastica: il contesto

L’otite media cronica (OMC) colesteatomatosa è una patologia infiammatoria in cui il tessuto epidermico (la pelle) si accumula nell’orecchio medio e/o nella mastoide. Si tratta di una condizione benigna ma che presenta la tendenza alla crescita con erosione delle strutture circostanti (catena ossiculare, canale osseo del nervo facciale, coclea e labirinto, meningi).

Secondo la classificazione EAONO/JOS System, il colesteatoma può essere presente fin dalla nascita oppure acquisito. Quest’ultimo è il tipo più frequente e solitamente si forma in caso di disventilazione cronica dell’orecchio medio (malfunzionamento della tuba uditiva di Eustachio) con conseguente retrazione della membrana timpanica; oppure si forma in seguito a perforazioni della membrana timpanica determinate da otiti o traumi. Più raramente è dovuto a precedenti interventi chirurgici a carico dell’orecchio medio/mastoide (colesteatoma iatrogeno).

La timpanoplastica, invece, è un’operazione che si esegue sulla “cassa del timpano” o cavità timpanica, cioè sugli spazi aerei e sulle strutture ossee dell’orecchio medio e della mastoide, sia per trattare la malattia, sia per ricostruirne la funzionalità. È l’intervento indicato quando l’infezione cronica dell’orecchio medio o il colesteatoma, oltre a perforare la membrana timpanica, danneggia la mucosa, distruggendo parzialmente o completamente gli ossicini, cioè, in ordine dal timpano all’orecchio interno (dall’esterno all’interno del cranio), il martello, l’incudine e la staffa.

I Fatti

Nel mese di novembre Giacinta si reca presso uno specialista ORL per detersione del timpano sinistro da detriti ceruminosi. Nel maggio dell’anno seguente, si reca a controllo da un altro specialista, che consiglia controlli periodici anche con audiometria.

Ad aprile dell’anno successivo insorge un’otite media bilaterale senza sintomi. Lo specialista accerta un miglioramento dopo l’assunzione di glicerolo, con residua perdita media dell’udito di 65 dB sulle frequenze principali a sinistra, 45 a destra a causa dell’otite micotica ora risolta. Prescrive un’audiometria vocale in cuffia e proseguimento di una dieta iposodica.

Al controllo dopo 15 giorni, il medico specialista accerta la guarigione dalla micosi a destra, con residua perforazione del timpano a sinistra. I test audiometrici indicano una buona discriminazione bilateralmente all’audiometria vocale con indicazione però di protesi acustica monoaurale sinistra.

I controlli successivi restano più o meno invariati, ma l’anno seguente lo specialista riscontra otomicosi asintomatica a destra e a sinistra con una iniziale evoluzione colesteatomatosa. Si tratta di una forma di otite cronica che si sviluppa con la formazione di una cisti di pelle desquamata che si accumula nell’orecchio medio e nella mastoide, con tendenza espansiva sulle strutture circostanti come l’orecchio medio, il nervo facciale, l’orecchio interno e le meningi. Esegue quindi la detersione e la medicazione, prescrivendo anche una terapia medica locale, TAC di rocche e mastoidi, non uso della protesi per 8 gg e trattiene la donna in osservazione dopo un episodio di vertigini post-detersione.

L’audiogramma intanto accerta una perdita media di 35 dB a destra e 40 a sinistra.

Al nuovo controllo, l’otomicosi a destra non è più evidente ma si riscontra la presenza di perforazione dei quadranti anteriori a sinistra; è prescritta anche una terapia medica topica e controllo a 40 gg.

Si accerta dalla TAC un’otite cronica colesteatomatosa a sinistra e otite cronica semplice a destra; si evidenzia anche la perforazione dei quadranti anteriori.

La storia prosegue con visite, lavaggi e terapia medica ma la situazione non migliora e l’udito peggiora progressivamente.

Dopo anni dal secondo lavaggio, il calvario di Giacinta non si conclude e la donna deve ricoverarsi per sottoporsi a un intervento di timpanoplastica destra per otite media cronica e otite cronica colesteatomatosa sinistra.

Gli specialisti ospedalieri evidenziano un nesso causale tra il lavaggio auricolare effettuato per la micosi anni prima e la perforazione del timpano destro con conseguente ipoacusia permanente.

L’anno seguente Giacinta entra di nuovo in sala operatoria con diagnosi di ipoacusia in otite cronica bilaterale, nonostante terapia chirurgica a destra, per una timpanoplastica stavolta a sinistra.

Le responsabilità mediche

Nonostante la complessità del caso, gli esperti della CTU rilevano una manovra imprudente durante il lavaggio auricolare dell’orecchio destro che, nonostante la procedura standard, ha causato la perforazione del timpano. Anche i sintomi accusati da Giacinta (vomito e vertigini) subito dopo il lavaggio portano in quella direzione.

L’ accordo bonario per il riconoscimento di danno iatrogeno ha previsto un risarcimento per € 25.262,00.