Stabilizzazione vertebrale complicata da lesione del sacco durale

Marianna, 47 anni all’epoca della sua vicenda clinica, si ricovera per Spondilolistesi L5 S1 di III grado presso un ospedale di Napoli, dove si sottopone a un intervento chirurgico di stabilizzazione vertebrale. Ma il post-operatorio si rivela più complesso del previsto e comporta altri ricoveri per la gestione della ferita chirurgica e la conseguente infezione batterica.

Marianna si rivolge a IUREMED per richiedere un equo risarcimento per tutte le problematiche, fisiche e psicologiche, che ha dovuto affrontare in seguito alle complicanze di un intervento, ormai collaudato, che avrebbe dovuto svolgersi con facilità.

Spondilolistesi L5 S1 di III grado: il contesto

La spondilolistesi è lo scivolamento di una vertebra su quella adiacente, più frequentemente tra L5 e S1. Si tratta di una condizione che progredisce lentamente e che spesso non presenta sintomi specifici. Per questo motivo è una diagnosi radiologica, cioè scoperta spesso in seguito a controlli eseguiti per altri motivi.

Il trattamento si basa sulla “stabilizzazione” secondo diverse modalità. Nei casi più lievi può bastare il rinforzo della zona muscolare paravertebrale, praticando sport come il nuoto, specie il dorso, ed esercizi che potenziano i muscoli e i legamenti intorno alla colonna vertebrale. Nei casi più gravi, invece, la stabilizzazione si ottiene con mezzi di sintesi, ossia barre e viti che “fissano” le vertebre “instabili”.

Il sacco durale è il primo dei tre strati di tessuto connettivo fibroso che ricoprono l’interno del canale vertebrale e proteggono il midollo spinale. Dalla forma cilindrica, è costituto da una spessa lamina di tessuto connettivo fibroso che gli conferisce una certa resistenza. Non aderisce mai veramente alla parete dei fori vertebrali, ma si tiene a una distanza tale da generare uno spazio vuoto molto importante, il cui nome è spazio epidurale che contiene tessuto adiposo, vene e arterie di piccolo calibro, vasi linfatici e sottili fasci di fibre (legamenti meningo-vertebrali).

Oltre a ricoprire il midollo spinale, il sacco durale avvolge anche la cosiddetta cauda equina, una struttura nervosa simile a un fascio che raggruppa le ultime 10 paia di nervi spinali, prima della loro fuoriuscita dalla colonna vertebrale.

I Fatti

Marianna si ricovera, presso un nosocomio napoletano, per sottoporsi a un’operazione chirurgica di stabilizzazione vertebrale in seguito a una diagnosi di Spondilolistesi L5 S1 di III grado.

Dopo pochi giorni dalle dimissioni, però, è costretta a tornare in ospedale per la fuoriuscita di un liquido sieroso dalla ferita. È di nuovo ricoverata per sottoporsi a tutte le medicazioni necessarie.

Passano altri giorni e la donna subisce un terzo ricovero per due ulteriori interventi revisionali e per il drenaggio del liquido causato da un’infezione post-chirurgica.

Il problema non si risolve e il quadro settico peggiora; quindi, Marianna è costretta a rivolgersi a un’altra struttura ospedaliera dove è sottoposta a un serio intervento di riparazione della deiscenza, cioè la mancata chiusura dei lembi di una ferita o dei margini di una sutura, e alla cura dell’infezione.

Le responsabilità mediche

Ciò che la CTU evidenzia è la non corretta esecuzione dell’operazione che ha comportato la fuoriuscita del siero ematico dai margini della ferita chirurgica. C’è stata quindi imperizia medica in un caso clinico trattato con una tecnica operatoria ormai piuttosto conosciuta e di facile esecuzione.

Ciò che è accaduto è una manovra sbagliata del chirurgo che ha causato una lesione del sacco durale, con la conseguente formazione di una fistola e la perdita di liquido nei margini della ferita. Si tratta di una membrana che protegge il midollo spinale, la più spessa dei tre strati che lo proteggono.

Tale lesione del sacco meningeo non è stata rilevata nella descrizione dell’intervento, ma è la causa della fistola che si è originata nella fase post-operatoria di montaggio dei dispositivi metallici di stabilizzazione.

La ferita è stata poi contaminata da un batterio, lo Stafilococco aureo che ha aggravato il quadro clinico.

Si è quindi valutato lo stato di invalidità temporanea per il recupero della zona operata e un periodo di riabilitazione funzionale della postura e per la rieducazione alla funzione rachidea. In tutto un calvario durato più di 5 mesi.

Il danno anatomico, funzionale e iatrogeno (attribuibile cioè a un intervento terapeutico) quindi è stato riconosciuto dal Giudice del Tribunale di Napoli che ha stabilito un risarcimento di euro 144.371,70.

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