Gli effetti della resilienza sul risarcimento del danno: criteri di calcolo del
risarcimento del danno intermittente o da premorienza

Avv. Donato Sandro Putignano

Introduzione
Che impatto può avere la resilienza sulla quantificazione del risarcimento del danno?


«La resilienza è la capacità di un individuo di generare fattori biologici, psicologici e sociali che gli permettano di resistere, adattarsi e rafforzarsi, a fronte di una situazione di rischio, generando un risultato individuale, sociale e morale.» (Oscar Chapital Colchado)
È possibile partire da tale definizione di resilienza per esaminare il riflesso che la capacità umana di adattarsi alle nuove situazioni ha nella quantificazione del danno non patrimoniale, ed in particolare del danno così detto intermittente.
Questa particolare categoria di danno, nella sottospecie del danno da premorienza, è stata al centro di un intenso dibattito da quando, nello scorso dicembre, la Suprema Corte di Cassazione ha bocciato i criteri elaborati nel 2018 dall’Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano con le seguenti motivazioni:
«La seconda premessa dalla quale muove la tabella è quella che “il danno non è una funzione costante nel tempo, ma esso è ragionevolmente maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi”. Questa premessa non può essere condivisa, in quanto in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale. Sul piano logico, la contraddizione è evidente per la semplice ragione che non ha senso ipotizzare che un danno possa “decrescere” nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, “permanente”[…] Sul piano giuridico, l’idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane (così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513); il danno biologico permanente è, dunque, una rinuncia permanente. Rispetto ad essa, il decorso del tempo può, in teoria, attutire la sofferenza causata da quella rinuncia, ma non consente comunque di recuperare le abilità perdute. Sul piano della medicina legale, infine, la suindicata affermazione è scorretta, proprio perché “permanenti” sono definiti in medicina legale quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo». (Cass. Civ., sez. III, 29 dicembre 2021 n. 41933).
Come vedremo di qui a poco, la Suprema Corte, nel contestare i criteri elaborati dall’Osservatorio milanese, poggia le proprie considerazioni su una ricostruzione giurisprudenziale errata che rischia di condurre solo a nuova confusione nel sistema della responsabilità civile.
In realtà, le tabelle milanesi dicevano il giusto nell’affermare che il danno alla persona non è una funzione costante nel tempo, ma tale assunto avrebbe meritato un maggiore approfondimento per reggere al vaglio dei Giudici di legittimità.
Ciò che mancava nella elaborazione dell’Osservatorio, era la spiegazione delle ragioni alla base di tale andamento non costante del danno nel tempo.

Effetti sulla quantificazione del danno alla persona


Le tabelle milanesi facevano intendere che il mero trascorrere del tempo potesse avere un effetto sulla quantificazione del danno alla persona, e per questo sono state giustamente bocciate. Non costituisce, infatti, una massima d’esperienza comunemente accettata quella per cui “il tempo allevia le pene” e, per questo, è errato basare su di essa dei criteri di quantificazione del danno. La tesi dell’andamento non costante del danno nel tempo regge solo se viene corroborata dagli effetti della resilienza, vale a dire la comprovata capacità umana di adattarsi alle modifiche che si realizzano nella realtà.

Il danno alla persona muta nel tempo in quanto, subito dopo l’evento lesivo, l’essere umano realizza, più o meno consapevolmente, tutta una serie di azioni necessarie a limitare la compromissione delle sue funzioni, fino ad arrivare ad uno stato non più modificabile, che rimane uguale nel tempo. L’errore in cui incorre la Suprema Corte è quello di muovere le proprie critiche facendo riferimento al concetto di danno permanente, giungendo a dire, in sintesi, che un danno che permane per sempre non può per definizione diminuire nel tempo.
Gli effetti della resilienza, tuttavia, non conducono ad una diminuzione del danno, ma ad una sua ripartizione non costante nel tempo, quindi: nel periodo di tempo massimo, dato dagli anni di sopravvivenza prevista secondo Istat, il danno complessivo sarà sempre uguale a quello del soggetto in vita, ma sarà maggiore rispetto al valore medio nel periodo iniziale (periodo di adattamento) e minore nel periodo a seguire. Di conseguenza, quando siamo costretti ad eliminare dal calcolo il periodo finale della vita secondo Istat, a causa della premorienza, sottrarremo una parte di danno di minore entità, se paragonata alla parte immediatamente post-sinistro.
La Suprema Corte, inoltre, richiama a sostegno della propria tesi un’altra famosa ordinanza di legittimità, il c.d. decalogo del Dott. Rossetti.
«Sul piano giuridico, l’idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane (così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513); il danno biologico permanente è, dunque, una rinuncia permanente».
La citazione giurisprudenziale, non è, tuttavia, corretta in quanto nell’ordinanza n. 7513/2018 non si parla mai di rinuncia ad un’attività, ma del diverso concetto di compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane.
«La lesione della salute risarcibile in null’altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire. Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico relazionali dovrà dirsi, ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile» (Cass. Civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513).
La differenza non è solo lessicale o stilistica in quanto il concetto di compromissione, più corretto di quello di rinuncia, è perfettamente compatibile con i già ricordati effetti della resilienza e dell’adattamento. Del resto, la fallacia del ragionamento della Suprema Corte viene ad essere confermata, dalla volontà della stessa di salvare la precedente giurisprudenza di legittimità che aveva ammesso un’incidenza del passare del tempo nella quantificazione del danno morale: “il decorso del tempo può, in teoria, attutire la sofferenza causata da quella rinuncia, ma non consente comunque di recuperare le abilità perdute”.
«In tema di risarcimento del danno biologico, la liquidazione va parametrata alla durata effettiva della vita, se questa è più breve per cause indipendenti dal sinistro oggetto del giudizio rispetto a quella attesa o corrispondente alla vita media (sebbene occorra tenere conto della maggiore intensità del patema d’animo nei primi tempi successivi all’evento), assumendo esclusiva rilevanza la sofferenza effettivamente patita per il residuo tempo di durata della vita, nel rispetto del fondamentale principio di contenimento di qualunque forma di risarcimento all’effettivo pregiudizio arrecato.»(Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2016, n. 10897)
Perché i ragionamenti fatti per il danno biologico non dovrebbero valere per quello morale? Perché il mero passare del tempo dovrebbe essere ritenuto criterio universalmente valido di abbattimento del danno da sofferenza soggettiva?
Un riferimento più chiaro alla resilienza era, del resto, già contenuto nelle Tabelle del Tribunale di Roma, che avevano previsto dei criteri per la determinazione dal danno da premorienza, facendo espresso riferimento al concetto di adattamento.
“Il Tribunale di Roma ha ritenuto di poter stabilire i parametri di cui tenere conto sulla base delle seguenti considerazioni: il danno non è una funzione costante crescente con il tempo; ciò significa che non si acquisisce giorno per giorno una frazione del danno complessivo, ma si acquisisce subito (ovviamente nella misura dei postumi stabilizzati) una parte dello stesso che costituisce l’adattamento alla modificazione psicofisica intervenuta ed una parte che invece è correlata con i progressivi pregiudizi fisici e psichici che il soggetto incontra nel tempo si acquisisce nel tempo.”
Per comprendere ancor meglio il funzionamento della resilienza a seguito del patimento di un danno, è possibile prendere spunto dalla presentazione di un corso organizzato dall’Unione Italiana Ciechi per l’adattamento alla perdita della funzione visiva.
«La mancanza della vista non permette di sviluppare un “super udito”, un “super olfatto” un “super tatto”, perché il potere e la capacità dei sensi vicari non aumentano con la privazione della vista. Quello che cambia è il loro utilizzo attraverso un addestramento specifico è possibile, infatti, imparare a utilizzare i sensi extravisivi in un modo nuovo per fare sì che sostituiscano o supportino il canale visivo. Questo adattamento è il frutto di un percorso pratico e teorico insieme, fatto di esercizi ed esperienze che può durare anni. Non basta
chiudere gli occhi per imparare ad ascoltare e a costruire immagini mentali o acustiche. Bisogna esercitarsi, sbagliare, provare e riprovare. In questo processo di apprendimento si inseriscono i corsi di orientamento e mobilità che l’Istituto dei Ciechi e l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti propongono con sempre più forza e convinzione. Muoversi in sicurezza ed orientarsi sono infatti abilità indispensabili per il raggiungimento di un’autonomia piena».
Ovviamente, la frequentazione di un corso di tal genere può condurre a risultati eccellenti, ma il processo umano che viene così incentivato si realizza sempre, ed è attuato fisiologicamente da ogni individuo.
Gli effetti della resilienza sulla quantificazione del danno intermittente possono essere apprezzati ancor meglio con una raffigurazione grafica che metta a confronto l’andamento del danno nelle due ipotesi di considerazione o meno della resilienza.
Nelle due griglie sotto riportate, ad ogni colonna corrisponde un anno di sopravvivenza secondo Istat, quelle verdi corrispondono agli anni effettivamente vissuti e quelle rosse agli anni non vissuti per premorienza.
Ad ogni rettangolo corrisponde un valore di danno di € 1.000,00 e in entrambi i casi il danno complessivo, calcolato secondo le ordinarie tabelle per il danno biologico, è pari a € 20.000,00.
Alla prima griglia corrisponde l’andamento del danno nel caso di inesistenza di resilienza e adattamento.
Come si può vedere, viene rispettato un criterio proporzionale puro e così ad ogni anno corrisponderanno € 5.000,00 di quantificazione del danno.
Alla seconda griglia, invece, corrisponde l’andamento del danno considerati gli effetti della resilienza. Come si può vedere, al primo anno, data la maggiore difficoltà di adattamento, corrisponderà una maggiore quantificazione del danno (€ 8.000,00), mentre terminato il periodo di adattamento, il danno si assesterà su un valore annuo medio non più mutabile (€ 2.000,00).

Questa raffigurazione grafica consente di apprezzare immediatamente l’iniquità del criterio proporzionale puro nel calcolo del danno intermittente. L’applicazione di tale criterio, infatti, per il caso di due anni di premorienza, farebbe venir meno il diritto ad un risarcimento di € 8.000,00, anziché di € 4.000,00 (somma dei rettangoli rossi).


Compresi gli effetti della resilienza sulla quantificazione del danno, è possibile cimentarsi nell’elaborazione di una formula di calcolo del danno intermittente, che possa tradurre questi effetti in numeri, considerando la massima espressione del danno nel primo periodo di adattamento post-lesione, e il valore medio del periodo successivo alla stabilizzazione.
Per elaborare una formula corretta ed equa è necessario, innanzitutto, individuare le massime di esperienza sulle quali farla poggiare.
Tre massime di comune esperienza comunemente condivise potrebbero essere le seguenti:
a) è più facile adattarsi ad una piccola limitazione funzionale che ad una grande limitazione funzionale
b) è piu’ facile adattarsi ad una limitazione funzionale in giovane età piuttosto che in età avanzata
c) ad una maggiore difficoltà di adattamento corrisponde un periodo di adattamento più lungo
Dallo sviluppo delle massime di esperienza è possibile, poi ricavare i criteri per la quantificazione del danno:

la base del danno intermittente è la risultante del danno totale tabellare diviso per gli anni di sopravvivenza teorica ISTAT e moltiplicato per gli anni di sopravvivenza effettiva (criterio
proporzionale puro);

la percentuale di incremento del danno relativa al periodo di adattamento deve essere proporzionale rispetto al valore del danno biologico e all’età del danneggiato;

in caso di età molto avanzata il periodo di adattamento coincide con l’intero periodo di sopravvivenza e non si applica riduzione per premorienza (cfr. Cass. civ. 11 ottobre 2018, n. 25157);

in caso di danno alla nascita il periodo di adattamento è pari a zero;

la percentuale di incremento del danno relativa al periodo di adattamento è pari alla somma fra valore del danno biologico ed età del danneggiato;

il danno incrementato in considerazione del periodo di adattamento non può essere maggiore del danno totale tabellare per soggetto in vita.


Da questi criteri si ricava la seguente formula:
FORMULA DI RESILIENZA
DI (Danno intermittente) = DP +X%
DP (Danno proporzionale) = DT (danno tabellare) diviso per anni di sopravvivenza Istat e moltiplicato per
anni di effettiva sopravvivenza
X% = valore risultante dalla somma fra percentuale di danno biologico e età del danneggiato
DT = Danno tabellare (morale + dinamico relazionale) per la percentuale di danno in un soggetto in vita.

Esempi
Per esaminare gli effetti dell’applicazione della formula soprammenzionata, possiamo utilizzare gli stessi esempi pratici contenuti nelle Tabelle di Roma, che, pur considerando il riconoscimento di una somma per il periodo di adattamento, utilizzano come parametro di riferimento per il calcolo della stessa solo quello della gravità del danno patito, non considerando l’età del danneggiato.
Come si può notare leggendo gli esempi sotto riportati, i risultati della formula di resilienza sono, di conseguenza, simili a quelli delle Tabelle di Roma per le classi medie di età, mentre si distanziano per le fasce di età più giovani e per quelle più anziane, proprio in quanto la formula di resilienza tiene conto delle diverse capacità di adattamento nelle diverse fasi della vita.

Primo esempio
Soggetto di 41 anni che subisce una lesione valutata come 30% di danno biologico e che muore dopo cinque anni per causa diversa dalle lesioni.
Vita media in relazione alla età al momento dell’incidente anni 83; anni ancora da vivere in media (83-41) 42;
anni vissuti in concreto 5.
DT (Danno tabellare 30% valore Roma) = € 93.103,40
X% (Percentuale di incremento per adattamento) 71% (41+30)
DP (danno proporzionale) = € 11.083,73

DI (Danno intermittente) = 18.953,17 (11.083,73+71%)
Importo ridotto per Tabelle Roma = € 23.386,69

Secondo esempio
Soggetto di 61 anni che subisce una lesione valutata come 40% di danno biologico e che muore dopo cinque anni per causa diversa dalle lesioni.
Vita media in relazione alla età al momento dell’incidente anni 87; anni ancora da vivere in media (87-61) 26:
anni vissuti in concreto 5.
DT (Danno tabellare 40% valore Roma) = € 158.104,47
X% (Percentuale di incremento per adattamento) 101% (61+40)
DP (danno proporzionale) = € 30.404,70
DI (Danno intermittente) = 61.113,44 (30.404,70+101%)
Importo ridotto per Tabelle di Roma = € 55.944,65


Terzo esempio
Soggetto di 81 anni che subisce una lesione valutata come 45% di danno biologico e che muore dopo cinque anni per causa diversa dalle lesioni.
Vita media in relazione alla età al momento dell’incidente anni 92 anni; ancora da vivere in media (92-81) 11;
anni vissuti in concreto 5
DT (Danno tabellare 45% valore Roma) = € 176.605,14
X% (Percentuale di incremento per adattamento) 126% (81+45)
DP (danno proporzionale) = € 80.275,06
DI (Danno intermittente) = 181.421,63 (80.275,06+126%)
LIMITATO A € 176.605,14
Importo ridotto per Tabelle di Roma = € 101.467,68


In questo terzo esempio, è possibile apprezzare l’applicazione del criterio sopraindicato per cui l’entità del danno e l’età avanzata del danneggiato rendono estremamente difficile un adattamento alla nuova situazione, tale da non potersi esaurire negli anni di effettiva sopravvivenza. In questo caso, quindi, alcuna riduzione per premorienza può essere applicata, ed il limite risarcitorio deve risultare pari a quello previsto per un soggetto in vita.

Conclusioni


Appare necessario sottolineare come alcuna distinzione sia stata fatta fra danno morale e danno dinamico relazionale, in considerazione della stretta dipendenza fra il valore del primo e quello del secondo, che giustificano una identica applicazione della medesima formula per entrambe le voci di danno.
Infine, l’applicazione di tale formula è utile a calcolare ogni ipotesi di danno intermittente e non solo quello da premorienza.
Si ricorda, infatti, come ci siano casi di danno biologico permanente patiti solo per un determinato lasso di tempo, non a causa di premorienza, ma per una modifica radicale del distretto anatomico coinvolto. Si pensi, ad esempio, ad una paziente che abbia subito per 10 anni disturbi minzionali a causa di una garza ritenuta nella vescica scoperta solo a seguito di un successivo intervento risolutore o demolitivo.
In casi come questo, la medicina legale insegna che non di invalidità temporanea si può parlare, ma di danno biologico permanente intermittente (sul punto Cass. Civ. sez. III, n. 28040/2021, relativa ad un caso di rinosettoplastica con danno estetico emendato dopo 5 anni).

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