Artrodesi di caviglia complicata da infezione ospedaliera
Gregorio all’epoca dei fatti ha 69 anni ed è ricoverato presso un ospedale ligure per artrosi tibio tarsica destra, per essere sottoposto, il giorno seguente, a un intervento chirurgico.
Durante l’operazione però contrae una grave infezione ospedaliera da Pseudomonas Aeruginosa e un anno dopo è costretto a subire un altro intervento per la rimozione dei dispositivi impiantati, anche per il focolaio infettivo alle ossa riscontrato in sala operatoria. Gregorio ha dovuto subire una lunga degenza e sottoporsi a una massiccia cura antibiotica.
Si rivolge quindi a IUREMED per ottenere un risarcimento per i danni fisici, biologici ed esistenziali.
Artrosi tibio tarsica e artrodesi: il contesto
L’artrosi tibio tarsica è una patologia degenerativa che colpisce le articolazioni della caviglia. Il sintomo più comune è il dolore e la limitata funzionalità dell’arto. Le cause possono essere congenite (presenti fin dalla nascita) o post-traumatiche. Quando è in stato molto avanzato, il trattamento indicato è quello chirurgico di artrodesi. Si tratta di una tecnica attraverso cui si esegue una “fusione” degli elementi ossei che compongono l’articolazione.
Si può eseguire in artroscopia, quindi con minore invasività, oppure a cielo aperto. È un intervento che limita parzialmente la funzionalità della caviglia, non permettendo un completo movimento, poiché blocca parti dell’articolazione. Tuttavia, consente la scomparsa del dolore.
I Fatti
Gregorio è stato vittima nel 2002 di un grave infortunio sul lavoro, dove ha riportato un trauma piuttosto serio agli arti inferiori. Dopo qualche anno si ricovera presso un nosocomio ligure, con una diagnosi di artrosi tibio tarsica destra, per essere sottoposto a un intervento di artrodesi della caviglia destra a causa del forte dolore e dell’impossibilità a camminare bene.
Il post operatorio sembra svolgersi regolarmente e Gregorio è dimesso.
Dopo qualche mese però torna in ospedale per la comparsa di un arrossamento della pelle e tumefazione della zona operata. Si sottopone agli accertamenti diagnostici del caso che rilevano un processo infettivo in atto, con osteomielite alla caviglia (infezione dell’osso).
È costretto quindi a tornare in sala operatoria per rimuovere i dispositivi impiantati. L’indagine microbiologica di questi ultimi risulta positiva allo Pseudomonas Aeruginosa, un batterio tipico delle infezioni ospedaliere. Non solo, deve sottoporsi a un trattamento antibiotico importante per debellare l’infezione, un calvario durato circa un anno.
Le responsabilità mediche
Con il termine “infezione correlata all’assistenza”, si intendono le infezioni sopraggiunte
nel corso di un ricovero ospedaliero, che solitamente si manifestano dopo 48 ore o più dal ricovero. Sono inoltre comprese anche le infezioni successive alle dimissioni o a un trattamento invasivo.
Le infezioni nosocomiali rappresentano uno dei problemi più rilevanti della medicina moderna, sia per la loro frequenza, sia per le caratteristiche del fenomeno, in quanto, seppur entro certi limiti prevenibili con l’adozione di scrupolose misure precauzionali, risultano non eliminabili definitivamente. Costituiscono, pertanto, un rischio indissolubilmente connesso all’attività sanitaria.
Sono considerate un evento sicuramente prevedibile, poiché si tratta di una delle più comuni “complicanze” che accadono in ospedale, ma sono anche definite, dalla letteratura scientifica, evitabili.
La CTU evidenzia che indubbiamente l’intervento chirurgico era indicato per il quadro clinico di Gregorio, ma si rileva anche l’infezione batterica che ha obbligato l’uomo e sottoporsi, dopo alcuni mesi, a una nuova operazione. È anche dimostrata l’associazione tra l’infezione da Pseudomonas Aeruginosa, uno dei patogeni più frequenti in ospedale, e il ricovero ospedaliero.
Gregorio ha subito pertanto un danno permanente, con un quadro di osteomielite e la rimozione dei dispositivi impiantati, e un danno temporaneo, poiché ha dovuto passare ben 206 giorni in ospedale tra visite specialistiche e ricovero.
La vicenda si conclude con un accordo con la ASL e un risarcimento pari a euro 22.000.
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