Quando un’infezione curabile diventa letale:ritardo diagnostico nella gestione del Clostridium difficile

La storia della signora Teresa (nome di fantasia), ottantunenne, è una vicenda purtroppo emblematica di come una gestione clinica non tempestiva possa trasformare un’infezione potenzialmente trattabile in un evento mortale. Il suo percorso assistenziale, ricostruito nella Consulenza Tecnica d’Ufficio depositata presso il Tribunale di Milano, mostra con grande chiarezza una catena di criticità nella diagnosi e nel trattamento dell’infezione da Clostridium difficile, un batterio molto comune nelle strutture sanitarie e che, se non riconosciuto in tempo, può condurre a coliti severe e complicanze gravissime.

Le condizioni della paziente prima dell’ingresso in RSA

Dalla documentazione emerge che la signora Teresa presentava numerose comorbidità: un pregresso ictus ischemico, polmoniti ricorrenti, deterioramento cognitivo, anemia autoimmune, diverticolosi, malnutrizione e un periodo prolungato di allettamento

Si trattava quindi di una paziente fragile, ma non in condizioni definite “terminali”. Era stata ricoverata per polmonite da COVID e, una volta stabilizzata, fu trasferita in una RSA dedicata ai pazienti ancora positivi.

Secondo quanto rilevato dai CTU, all’ingresso nella struttura la paziente presentava sì un rischio elevato legato all’età e alle patologie pregresse, ma non tale da far ritenere imminente o inevitabile il decesso. Le scale prognostiche citate in relazione – come la 4C Mortality Scale e il BECLAP Score – indicavano un rischio significativo, ma comunque compatibile con un percorso di recupero o stabilizzazione, se adeguatamente assistita.

L’esordio della diarrea e la mancata tempestività degli accertamenti

Il punto critico individuato dalla CTU è molto chiaro: il ritardo nella diagnosi dell’infezione da Clostridium difficile e quindi nell’avvio della terapia appropriata.

La diarrea – primo sintomo tipico dell’infezione – compare il 18 aprile 2021. I medici dell’USCA, responsabili dell’assistenza medica nella RSA in periodo COVID, annotano correttamente la necessità di ricercare il batterio nelle feci. Tuttavia, il test non viene eseguito.

Nei giorni successivi la diarrea continua, si alternano fasi di apparente miglioramento e nuove scariche, ma l’esame, che avrebbe dovuto essere effettuato rapidamente proprio per confermare il sospetto, resta in sospeso. Gli infermieri segnalano più volte la necessità di ottenere la prescrizione (“impegnativa”), ma tra il 18 aprile e il 5 maggio, giorno in cui la paziente viene trasferita nuovamente in ospedale, il test non risulta ancora eseguito

La CTU sottolinea che questo ritardo non era giustificabile: l’esame richiesto non presentava difficoltà tecniche, non si trattava di un test specialistico, e l’indicazione era stata posta da subito. Non è stato possibile stabilire se il ritardo sia imputabile ai medici USCA o a un disguido interno alla RSA, ma è certo che la paziente non ha ricevuto tempestivamente gli accertamenti necessari.

Una terapia iniziale inadeguata e tardiva

Nell’attesa della conferma diagnostica, la paziente viene trattata con rifaximina, un antibiotico talvolta utilizzato come approccio empirico nelle diarree, ma non indicato come terapia specifica per il Clostridium difficile nelle forme che superano le 48 ore. Tale trattamento, che poteva essere appropriato per un brevissimo tempo, viene invece prolungato troppo a lungo, senza alcun miglioramento. Nel frattempo, l’infezione continua a evolvere.

Il risultato è la progressiva disidratazione, un grave squilibrio degli elettroliti (in particolare il potassio), il peggioramento della funzione renale e, infine, lo sviluppo di una forma severa di colite pseudomembranosa con segni radiologici di ileo paralitico / megacolon tossico, documentati nella TAC addominale del 8 maggio

La terapia adeguata – vancomicina e metronidazolo – viene avviata solo il 7 maggio, quando ormai il quadro clinico è compromesso e il margine di efficacia molto ridotto.

Il ruolo causale del ritardo: cosa afferma la CTU

Sul piano causale, i consulenti del Tribunale affermano che:

  • l’infezione non era presente al 3 aprile, come mostra il test negativo eseguito in ospedale;
  • l’esordio della diarrea in RSA avrebbe dovuto far sospettare immediatamente la presenza del Clostridium difficile;
  • il ritardo diagnostico e terapeutico ha fatto perdere alla paziente concrete possibilità di superare l’episodio infettivo, pur difficili da quantificare con precisione, tenuto conto della sua fragilità generale.

Pur riconoscendo che si trattava di una donna anziana e con prognosi comunque complessa, i CTU osservano che le terapie specifiche per il Clostridium hanno tassi di successo molto elevati – oltre l’80% nelle forme non ancora complicate – e che, in una logica controfattuale, un intervento tempestivo avrebbe potuto evitare l’evoluzione verso la forma tossica letale.

La signora Teresa muore il 9 maggio, meno di 24 ore dopo la TAC che documenta ormai un quadro irreversibile.

Le responsabilità evidenziate

Nelle conclusioni, la CTU individua come criticità centrale la mancata esecuzione tempestiva dell’esame diagnostico, che ha ritardato l’avvio della terapia appropriata.
Non viene individuata una responsabilità esclusiva della RSA, poiché le attività mediche erano formalmente attribuite all’USCA dell’ASL. Tuttavia, viene chiarito che:

  • il sistema assistenziale complessivo non ha funzionato;
  • una paziente fragile e con sintomi indicativi non è stata sottoposta agli accertamenti necessari entro tempi clinicamente adeguati;
  • questo ritardo ha inciso in modo determinante sull’esito.

Si tratta dunque di un classico caso di “ritardo diagnostico in patologia tempo-dipendente”, in cui l’attesa compromette progressivamente le possibilità di cura.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *